Santa Cecilia. Barrili Anton Giulio

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Santa Cecilia - Barrili Anton Giulio

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anima a Dite; e certo sarebbe stato il mio meglio. Ma così non fu; l'eccesso del dolore affogai nella crapula e nel giuoco, e alla dimane credetti essere risanato per sempre.

      Ero, credetemi, il primo bevitore, come il primo e più accanito feritore della centuria. Chi mai nelle taverne della Suburra, stupidamente inteso a cioncar falso Massico e Falerno inacetito, o a ricambiar carezze a taluna di quelle sconcie femmine che lo attorniavano, avrebbe riconosciuto Calisto, il profumato garzone di Corinto, l'amante della pudica Cecilia?

      Un giorno finalmente la vidi. Ella tornava, come seppi di poi, dalla villa di Valeriano sull'Aniene. Era adagiata su d'una lettiga, coperta di candido bisso, e le veniva accanto il suo Valeriano, giovine, bello ed altiero. Ella era ancor più leggiadra del volto che non fosse dapprima, e più lieta che io non usassi vederla nella casa paterna.

      Valeriano, misurando il suo passo su quello degli schiavi che portavano la lettiga, inchinava il capo verso Cecilia, ed ella sorrideva dolcemente alle parole di lui. Tu non sei dunque, chiedevo io, tu non sei più la casta Diana? Sei discesa tu pure da quel trono di luce che l'amor mio ti aveva edificato sulle stelle?

      Avevo io semplicemente pensato, o il mio pensiero m'era uscito dalle labbra con improvvide parole? Cecilia volse il capo; mi vide e rabbrividì: Valeriano, sul quale io aveva piantato due occhi infiammati, stringendo i pugni in atto di avventarmi su lui, mi fulminò di uno sguardo…

      La lettiga passò, ed io non vidi più altro.

      – Orbene, collega, – mi dissero alla sera i compagni, – che strana malinconia ti ha preso quest'oggi? Tu sei stato ad un pelo di farla grossa.

      – Io? non so…

      – Come? non ti ricordi? T'eri scagliato come una pantera sulla lettiga e sulla gente del patrizio Valeriano! e se noi non eravamo là per trattenerti, tu correvi un bel risico; chè i suoi servi t'avrebbero accoppato come un cane. Buon per te che sei uscito dei sensi… —

      Il giorno dopo, mentre ero ancora tutto confuso e sdegnato contro me, contro tutti, fui chiamato al cospetto di Almaco, il terribile prefetto di Roma, il cui nome facea tremare la gente, assai più che la presenza dello stesso imperatore.

      – Che cosa vorrà da me quest'altro? – pensai; e la mia mente correva alla scena del giorno innanzi. I compagni pensarono che un grave malanno mi sovrastasse, e mi videro partire come un uomo che non dovesse tornare mai più.

      Io tremavo, e le gambe mi reggevano a stento; pure andai, e fui tosto chiamato innanzi al prefetto.

      VI

      Almaco mi squadrò dal capo alle piante con occhio scrutatore, in quella che io cercavo di farmi più animo che potessi, e mi rivolse la parola:

      – Sei tu greco?

      – Sì, sono, – risposi.

      – Sei tu che ieri, sulla via Tiburtina, volevi scagliarti sulla lettiga del patrizio Valeriano? Rispondi! —

      È fatta, pensai tra me; il prefetto mi vuol morto, e sia; avrò tanto di meno a patire. Questo pensiero mi fece tornare il sangue nelle vene; avevo dinanzi agli occhi un pericolo certo, e non ero uomo da dare indietro. Però risposi con voce ferma e con piglio tranquillo:

      – Sono quel desso.

      – E perchè? Quali erano i tuoi disegni? – mi chiese Almaco, guardandomi sempre fisso negli occhi.

      – Almaco, – risposi io senza indugio, – tu sei potentissimo in Roma e per tutto il suo vasto impero. La mia vita è tua; fammi crocifiggere, ma non mi chiedere, te ne prego, il mio segreto. Io odio quell'uomo… —

      Con queste parole io mettevo a repentaglio la vita, e perchè l'animo mi bastasse a dirle, io non avevo alzato gli occhi a guardare il prefetto. Egli non mi rispose nulla, e quel breve momento di silenzio fu per me un secolo di angosciosa aspettazione. Gli orecchi mi fischiavano, il pavimento mi traballava sotto i piedi. Allora, sollevando con disperata audacia lo sguardo fino al mio giudice, che mi pareva lontano lontano, mi avvidi che egli mi stava curiosamente guatando e sorrideva.

      Sorrideva? Sì, appunto sorrideva, e voi potete argomentare qual fosse il mio stupore a quella vista. Com'egli ebbe ricomposto il volto al suo primo atteggiamento, ripigliò a parlarmi in tal guisa:

      – Sei tu uomo?

      – La schiettezza della mia lingua te lo ha dimostrato, clementissimo signore.

      – Sta bene; – disse Almaco. – Tu dunque odii Valeriano?

      – L'odio, sì, l'odio! —

      A queste mie parole il fiero prefetto non rispose, e dopo un'altra pausa, durante la quale si stropicciò parecchie volte la foltissima barba, mulinando tra sè molte cose, mi volse questa impensata domanda:

      – Vuoi tu essere centurione?

      – Centurione? – soggiunsi io trasognato. – O come, se non ho tuttavia alcun grado nella milizia?

      – Greco! – mi rispose egli. – Io posso quel che voglio; lo sai; non dimenticarlo. Vuoi tu essere centurione? —

      Io mi strinsi nelle spalle, chinando il capo in segno di assentimento, ed aggiunsi:

      – Ma, a qual patto? Tu per fermo, clementissimo signore, hai posto un disegno su me. Fa che lo intenda, e ti obbedirò. —

      Almaco si degnò di sorridere da capo, e in cambio di seguitare il discorso in quel modo che io lo avevo condotto con la mia risposta, mi fece un'altra interrogazione.

      – Conosci tu la setta de' Galilei?

      – No; – risposi, senza intender punto dov'egli andasse a parare. – Ho udito a parlarne da parecchi, i quali mi hanno detto esser questa una setta di uomini che si radunano in luoghi sotterra, mangiando carne di bambini, nelle loro agapi mostruose, e vivendo in comunanza di donne…

      – Ti hanno ingannato; – soggiunse il prefetto. – Costoro si raccolgono nelle catacombe, ma non divorano bambini, nè hanno comunanza di donne. Sono in quella vece uomini che scalzano l'autorità di Cesare e della santa religione dei padri nostri. Sono cittadini, sono liberi, schiavi, gladiatori, femminette della plebe, sono gente d'ogni levatura e di ogni ceto, uniti in un solo concetto, nella fede di un simbolo. Anelano alla uguaglianza di tutti gli uomini, per farne sgabello alla loro potenza e promulgar l'impero dell'infima plebe, governata a sua volta da ambiziosi delusi, da astuti impossenti. – Ecco, – seguitò a dire il prefetto, – ecco chi sono costoro, e perchè Roma si è indotta a combatterli. Se eglino si accontentassero a fare quel che tu hai detto, credi tu veramente che francherebbe la spesa di turbare i loro segreti negozi? Non abbiamo noi in Roma altari e sacerdoti per ogni divinità più strana? e non li tolleriamo noi tutti? che più? non diamo ai loro Numi il diritto della cittadinanza? non si sacrifica forse ad Iside come a Giove, ad Anubi come a Marte? La nostra Roma, sappilo, o Greco, è d'animo generoso e clemente. Essa non ama che la sua autorità vada a percuotere i riti innocenti donde tragge il popolo minuto la pace dello spirito; ma essa è terribile contro i propagatori di una fede che scuote dalle fondamenta il grande edifizio romano, contro coloro che congiurano nelle tenebre, che adorano il patibolo, innalzando il disprezzo della legge, la rivolta e il delitto, a segnacolo di un nuovo ordine di cose.

      – Per gli Dei! che dici tu mai, clementissimo Almaco? – risposi io, come egli ebbe finito. – Io nulla sapevo di

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