La plebe, parte III. Bersezio Vittorio

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La plebe, parte III - Bersezio Vittorio

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a parlare.

      – Conta Ella fermarsi alquanto tempo a Torino?

      – Pochissimo. Fra due o tre giorni ripartirò per continuare la mia vita nomade d'artista traverso le città italiane.

      – Ella dunque ha perso ogni affezione a questo nostro vivere torinese?

      – Amo sempre questa città come il mio luogo natio; e trovo ch'essa potrebbe essere il più gradito soggiorno del mondo.

      – Potrebbe essere? ripetè sorridendo il marchese.

      – Signor sì: ribattè vivamente d'Azeglio; e non contraddico menomamente la giusta interpretazione che il suo sorriso dà alle mie parole. Potrebbe essere, ma non è tale per molte ragioni che qui non è il caso d'esprimere…

      – E sulle quali forse, aggiunse Baldissero, noi non andremmo facilmente d'accordo.

      Massimo annuì con un cenno.

      – Che cosa vuole? Riprese egli poi. Sono io che mi sono guasto. La vita spigliata e libera che ho intrapresa, mi fa restare disagiato alle stampite di questa grave e severa monotonia regolata. Gli è come un buon pastricciano di campagnuolo che avendo calzato sempre abiti larghi ed alla buona, lo si voglia poi far rinserrare le membra nel vestito stretto e il collo nella cravatta allacciata delle foggie cittadinesche di rispetto.

      – Tutto sta, disse il marchese continuando in quella urbanità sorridente e un po' maliziosa: tutto sta a sapere se meritino preferenza i modi del campagnuolo o quelli del cittadino.

      – È una questione che si può risolvere sotto varii rispetti: rispose l'Azeglio con un'espressione che significava chiaramente declinar egli ogni volontà di discutere col suo nobile interlocutore. Rapporto a me confesserò che la risoluzione adottata è l'effetto dell'egoismo; mi trovo meglio in un modo che nell'altro… Ma Ella sa bene, soggiunse allegramente, che i Taparelli ne hanno tutti un ramo.

      – Quell'originalità d'ingegno e di carattere che Ella battezza così poco rispettosamente, ha fatto di tutti i Taparelli degli uomini superiori che hanno servito con gloria il re ed il paese.

      D'Azeglio s'inchinò in segno di riconoscente ringraziamento.

      – È una bella consolazione per un uomo di merito l'aver dietro di sè ne' suoi antenati tanti valenti uomini da imitare.

      – Ciascuno dà quello che ha. Avrei voluto, vorrei benissimo poter dare in me alla patria un uomo di Stato, un valente guerriero, un abile diplomatico: venga l'occasione e tutto quel poco che so, che sono e che valgo, metterò in servizio del mio paese. Per intanto non ho potuto dar altro ai miei concittadini che un meschino artista ed un meschino scrittore. Mi sono scrutato, come dice la Scrittura, le reni, e non ho trovato in me stoffa da personaggio di vaglia.

      – Suo padre l'aveva avviata per la carriera militare: disse vivacemente il marchese abbandonandosi alla piega confidenziale che aveva preso il discorso. È una delle più belle, delle più utili al paese, delle meglio fatte per un nome qual è il suo, per una natura irrequieta…

      – Come la mia: aggiunse d'Azeglio sorridendo, mentre Baldissero aveva troncato la parola per non dirlo egli.

      – Bene; come la sua: ripetè scherzosamente il marchese. Perchè abbandonarla?..

      S'interruppe: prese un'aria più grave, ma in pari tempo più affettuosa, quasi paterna.

      – Mi perdoni, soggiunse, l'entrare in siffatti discorsi. Da tempo la mia famiglia è avvinta con vincoli di stima e d'affetto alla sua; i nostri avi combatterono sempre a fianco; di suo padre, il marchese Cesare, fui amico quasi intimo, e mi onoro nel ricordare la reciproca affezione che ci univa. Tutto ciò mi serve, se non di diritto, di scusa per parlarle alquanto paternamente come mi sono lasciato andare a fare. È manìa de' vecchi di far da mentore, a coloro specialmente che hanno veduto fanciulli.

      – La prego di non pentirsi di questa sua buona ispirazione: disse con infinita ossequenza e con quella grazia simpatica che gli era particolare, Massimo d'Azeglio: e mi faccia l'onore di continuare nelle sue amorevoli ammonizioni.

      – Ebben sia! Perchè lasciare il servizio? In tutte le generazioni le nostre famiglie hanno sempre dato almeno un figliuolo all'esercito.

      – E nella mia famiglia per questa generazione toccava a me; non è vero? Roberto, come primogenito, era obbligato alla carriera civile, il povero Enrico è morto, l'altro mio fratello s'è fatto frate… Già: o frati o militari, non c'è scampo per noi nati dopo il primo in nobile famiglia… Ho avuto dunque torto a ribellarmi al decreto dell'uso e della tradizione. Ma badi un po', marchese, se quella vita del soldato colla sua disciplina fastidiosa e col suo ozio forzato era fatta per me! Io non fui mai così cattivo soggetto come a quel tempo: se ho corso pericolo di diventare addirittura un esecrabile cittadino, si fu allora: le mie pazzie facevan le spese delle conversazioni di tutta Torino: ne ho fatte proprio di brutte che ora mi vergogno a ricordare. Se non fosse stato del povero Bidoni che mi ha dato l'amor dello studio, che cosa sarebbe stato di me? Lo studio mi ha salvato. Certo non credo un artista utile al suo paese come un buon magistrato, un buon generale, un buon ministro: ma qualche cosa il suo lavoro produce pur sempre a vantaggio della comune coltura; e ad ogni modo è meno dannoso un mediocre artista che un cattivo e prepotente ufficiale. E di questi, dello stampo ond'ero io quando facevo le mie mattane alla Veneria ed a Torino, temo anzi che la nostra classe ne dia già troppi al paese, che non sa cosa farne.

      – Ma Ella non sa vedere via di mezzo – e sopratutto per un uomo della sua classe, della sua educazione e de' suoi talenti! – fra la vita scapata e bizzarra del giovane ufficiale, e quella non guari più seria di forme e assai meno nobile di sostanza dell'artista? Io rispetto il lavoro di tutti. Un artista che dal seno del popolo si innalzi alla sommità della sua arte, è per me una persona degna di ogni maggior rispetto. Ammiro Carlo V che raccoglie a terra il pennello caduto di mano dal Tiziano; ma un discendente di tante generazioni, da tanti secoli illustri per fasti guerreschi e per uffici politici, mi sembra che abbia assai di meglio da fare che dipingere, scolpire, far musica per professione. Per proprio gusto, come spasso, come riposo a più ponderose occupazioni, va benissimo; ma farne sua principal bisogna, concorrere con quelli che lo hanno per mestiere, come gagne pain, oh questa poi… sarà un pregiudizio, e la prego di perdonarne la manifestazione alla mia franchezza..: questa non mi pare la via meglio da seguirsi da un uomo di nobil sangue.

      – Vivere del proprio lavoro, disse con qualche vivacità l'Azeglio, ma che cosa v'è in ciò di meno nobile? Le assicuro, marchese, che io non mi vergogno per nulla di ricevere il prezzo d'un quadro che ho fatto. Ciascuno vende l'opera sua a questo mondo: il prete che vive dell'altare, il ministro che intasca lo stipendio, il ciambellano che piglia la paga e il domestico che riceve il suo salario. Quand'ero ufficiale di cavalleria mi pappavo la mia brava mesata ancor io; e se mi pagavano per farmi battere i quarti sulla sella, oh! perchè non mi avranno a pagare per farmi dipingere un quadro?3.

      Il marchese sorrise, crollò il capo e battendo colle dita una marcia sul bracciuolo della sua poltrona, esclamò scherzevolmente:

      – Ah che testa, che testa!.. Non la si correggerà mai più.

      – Lo temo anch'io: disse Massimo col medesimo tono.

      – Appunto Ella che è artista: disse Baldissero cambiando discorso per mostrare che di quella discussione non voleva più saperne: che cosa pensa di quest'oggetto d'arte?

      Ed additava il gran crocifisso in avorio, appeso al di sopra del camino.

      Massimo si alzò in piedi,

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<p>3</p>

Espressione testuale dell'Azeglio.