L'olmo e l'edera. Barrili Anton Giulio

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L'olmo e l'edera - Barrili Anton Giulio

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pino lo condusse a pensare alla casa paterna e ai felici giorni della prima adolescenza, allorquando suo padre lo faceva alzare per tempissimo per averlo compagno alla caccia, ed egli, sebbene non gli andasse a' versi quella maniera di passatempo, era lieto di correre su pei monti insieme con suo padre, di aiutare il rustico servitore a portar le gabbie degli uccelli di richiamo, le verghette di ferro e la pania da distendervi sopra.

      Colà, sul ciglio di una costiera piantata di piccole roveri, un grosso pino segnava il cominciamento di una nuova regione vegetale. Di là passavano a stormi i pellegrini dell'aria, i fringuelli, i cardellini, le cingallegre, i fanelli; e là, disposta ogni cosa per bene, le verghette impaniate tra i rami dell'albero, i richiami tra i cespugli, ambo ascosi in un cappannuccio di frasche, attendevano il passaggio degli spensierati, che, attratti dal canto traditore dei compagni prigionieri, venivano a dar ne' panioni, donde non c'erano santi che potessero cavarli.

      Il santo era qualche volta Guido Laurenti, cioè quando il padre suo si partiva di là, lasciandolo solo nella tesa. L'adolescente non pensava più agli uccelli. Accoccolato nel suo nascondiglio, col viso appuntellato sulle palme, e gli occhi nel vano dell'apertura, stava fantasticando una vaporosa forma di donna; vedeva la castellana, o la fata dei luoghi, scendere dalle rovine di un antico maniero e sedersi ai piedi di quel pino, e sè medesimo, nobilmente vestito di velluto, con le calze divisate di bianco e di rosso, il giustacore serrato ai fianchi, una berretta piumata capricciosamente posta a sghembo sui biondi capegli, stare a' piedi di quella gran dama, baciarle per tutti i versi quella mano bianca ch'ella gli aveva abbandonata tra le sue, e canticchiarle la sua prima ballata d'amore.

      Il dar d'uno sciame di lucherini nell'albero, lo sbatter dell'ali che sempre più si invescavano sulle verghette fallaci, il pigolare doloroso dei poveri pennuti, lo risvegliavano dalla sua estasi. Sbucava sollecito dal suo capannuccio, si arrampicava sull'albero, e andava a spiccare i tapinelli, badando a non strappar loro le penne maestre; ripuliva dal vischio le loro graziose zampine, e li rimandava con Dio, in nome di quella bellissima dama che era sparita pur dianzi.

      Poco stante capitava il babbo.—Orbene, non c'è stato nulla?—Nulla, babbo; uno sciame di lucherini ha dato nei rami, ma la pania non teneva e non ho fatto a tempo per coglierli; se ne sono volati via.

      E il babbo, che notava i piumini sulle verghe e la buona presa del vischio, a non credere un'acca dei discorsi dell'adolescente, a sgridarlo un tratto, ma compiacersi in cuor suo delle invenzioni del figlio, pur promettendo che non l'avrebbe più condotto ad uccellare con lui.

      Bei tempi, bei tempi! e chi non ha di somiglianti memorie, piccoli quadri dell'adolescenza, che si richiamano, si ridipingono e s'incorniciano tra le meditazioni dell'uomo adulto, belli di quella velatura ineffabile che distende sovr'essi la lontananza degli anni?

      Ed ecco come la vista di quel pino, sull'ultimo lembo della prateria sottostante, faceva fantasticare Laurenti, seduto presso il suo muraglione, colla sua Eneide tra mani.

      L'illusione delle circostanze era perfetta; non ci mancava neppure la castellana.

      Essa era laggiù, com'egli l'aveva sognata adolescente. Capelli neri e morbidi, chiusi in una reticella di filo d'oro, le cui larghe maglie non ne scemavano la lucentezza; la persona svelta e di graziosi contorni, a cui aggiungevano maestà e leggiadria le molli pieghe di una lunga veste di seta cenerognola e uno sciallo rosso di Persia, lavorato a fogliami, negligentemente raccolto intorno alla vita.

      Alla distanza in cui era, non si poteano distinguere i lineamenti del viso, ma s'indovinavano regolari e bellissimi, al soave effetto che facevano da lunge. L'ovale un tal po' allungato di quella faccia, la carnagione bianca, pallida come di una bella morente, richiamavano alla memoria una di quelle madonne in cui il pennello di Carlo Dolci ha così mirabilmente accoppiata, compenetrata quasi, la bellezza col patimento della materia, di guisa che il rimirarle vi sveglia ad un tempo la voluttà negli occhi e l'angoscia nel cuore.

      Laurenti rimase estatico a quella vista, senza sapere se vedesse da senno, o se per avventura non fosse quella una continuazione delle sue ricordanze giovanili. Poi, come avviene per simiglianti immagini del passato che fanno insieme tenerezza e sgomento, si sentì sopraffatto, e si fe' scorrere una mano sul fronte, quasi sperasse in tal modo dileguar dalla mente la diletta visione. Si provò a ripigliar l'Eneide e proseguir la lettura; ma il primo emistichio che gli cadde sott'occhi «Et vera incessu patuit Dea» non fece altro che richiamarlo all'argomento della sua contemplazione, e ricondurgli lo sguardo sotto quell'albero di pino.

      La dea era pur sempre colà, innanzi agli occhi suoi, dea al volto, al portamento, all'incesso. Ella era tuttavia sotto l'ombrello del pino, ma veniva lentamente in su pel sentiero sabbioso, la testa un tal po' reclinata sull'omero, come persona stanca, una mano al seno sui capi dello scialle, che senza quel ritegno sarebbe caduto, mentre l'altra, che si potea scorgere da lontano bianca e sottile, penzolava mollemente lungo le pieghe della veste fluente.

      Non era quella un'illusione per fermo. Il giovine meravigliato richiuse sull'indice le pagine aperte del libro e rimase intento a guardare la bianca apparizione. Per la prima volta dacchè dimorava lassù, egli vedeva qualcheduno, oltre il solito giardiniere, nella villa sottostante. La divinità misteriosa di quel tempio era là, pallida, sfinita, ma bella, come la principessa della favola, chiusa da un incantesimo di mago geloso in un castello dalle mura di diamante.

      La pallida signora si muoveva lentamente su pel sentiero, dando un'occhiata, ora a questo, ora a quello dei fiori delle aiuole circostanti. Ella si soffermava spesso, non tanto per guardarsi dintorno, come da lunge pareva, quanto per aspirare a labbra socchiuse (labbra di pallido corallo!) quell'aria tepida e ristoratrice. Appena ella fu presso ad un sedile di ferro dipinto, vi si lasciò andare la persona, come se fosse stanca oltremodo della via; adagiò gli omeri contro la spalliera, e rimase inerte, colle dita intrecciate, le braccia prosciolte, e gli occhi languidamente rivolti verso il sole, che si nascondeva allora dietro i monti d'Arenzano.

      Anch'ella, povera bella, fantasticava; ma, più infelice di Laurenti, ella soffriva, e le memorie che le tornavano in mente non erano punto liete, nè caramente malinconiche, come quelle del giovine naturalista.

      Venne la notte, ed ella era ancora sul suo sedile, nella istessa postura; Guido medesimamente fermo a guardarla, coll'indice tra le pagine del libro.

      L'ultimo filo di luce del crepuscolo rischiarò la doppia comparsa del giardiniere che andò a dar la mano alla signora per ricondurla nella palazzina, e del servitore di Laurenti che, temendo non s'infreddasse, da quell'uomo prudente ch'egli era, portava il cappello per coprir la testa al padrone.

      V

      Un nuovo e più vivace elemento entrava nella vita di Guido Laurenti. Era una bella e nobile vita la sua, intelligente, studiosa, operosa, e si disponeva acconciamente a diventar feconda d'intendimenti generosi. Ma il calore non c'era; non c'era quella tal cosa che fa dire col poeta latino: «spiritus intus alit». Egli era, se posso giovarmi del paragone, come un bel disegno senza colore, o come un bel paese senza luce, il che poi torna lo stesso, imperocchè i colori non sono che le sette persone di quella santissima Settenità. Ora, quel nuovo elemento era come l'alba che rischiara il paese, facendolo nuotare dapprima in una vaghissima nebbia, tinta a gradi con tutte le più soavi temperanze della tavolozza dell'iride, e dandogli da ultimo que' toni più giusti, que' lumeggiamenti ricisi, che fanno risaltare ogni cosa in tutta la sua schietta bellezza, colla debita osservanza a tutte le leggi della prospettiva.

      Tutte queste belle cose, che io dico del resto così male, non le disse a sè stesso, nè mal nè bene, il mio giovine protagonista. Egli non fece esame di coscienza allorquando, dopo aver pigliato il suo cappello dalle mani del servitore, stette ancora un pezzo immobile a guardare colà dove la bella gentildonna era sparita nel buio della sera, e non pensò neppure a farlo, quando con passi lenti e misurati rifece il viale del suo giardino per tornarsene in casa.

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