Cocincina. Luca De Pasquale
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In questi giorni, trascorso un trentennio da allora, ho riascoltato Power Play con addosso un senso di tenerezza misto a nostalgia. La devozione non è affatto scomparsa, semmai si è rafforzata. Naturalmente, sono consapevole che si trattava di un tentativo, da parte di Eddie, di unire una base ovviamente jazz con nuove e forse poco ponderate esigenze commerciali; in più, avevo rimosso che in questo album il grande bassista portoricano si cimentava addirittura, in un brano, con un basso elettrico verticale, il Merchant Vertical Bass.
So benissimo che Eddie Gomez ha dato in realtà il suo meglio – che è eccelso, tanto per ribadire – in altri contesti, non solo con Bill Evans. Però non riesco a considerare questo disco come uno qualunque, da conservare solo per devozione, appunto. Penso sia una questione di rapporto affettivo, che mi spinge ancora oggi a difenderne strenuamente il valore e la portata, troppo facilmente contestabili, da me in primis.
Amo moltissimo i dischi di contrabbasso solo, l’improvvisazione più selvaggia; il mio approccio uditivo verso il contrabbasso è di marca piuttosto free, un aspetto che potrebbe indurmi a dileggiare questo tipo di operazioni. Certe volte accade che il lavoro di qualche contrabbassista si riveli troppo commerciale o tradizionale per i miei gusti. Che la commistione di moderno e dogmatico mi sia indigesta, e ancor di più che una pulsione troppo “fusionara” mi disturbi addirittura.
Power Play è fuori da questa ambigua galassia, è prima di tutto un tenero ricordo, un caposaldo di una passione vecchia quasi quanto la mia intera esistenza.
Lo stesso discorso potrei anche farlo per un disco di Miroslav Vitous, Majesty Music, che non è certo uno dei suoi più riusciti. Sono i dischi con i quali ho cominciato; sono quelli che hanno sostituito i Duran Duran e gli Spandau Ballet (con tutto il rispetto); gli stessi che mi hanno salvato dalla seccante e vizza dicotomia Beatles/Rolling Stones. Sono i dischi della scoperta, tra i quali, come è ovvio, ci sono dei capolavori che mi hanno cambiato cervello, orecchie e cuore.
Power Play non è e non sarà mai considerato un capolavoro. Ma è mio, mi appartiene come tutte le svolte appartengono agli uomini che hanno la fortuna di viverle.
E così, faccio una pausa dai pensosi e intensi dischi che ho preso ad ascoltare ultimamente, quelli di Moppa Elliott, Bob Magnusson, le collaborazioni del grande Chuck Domanico, la fissazione per il duo Dave Holland/Sam Rivers, Anders Jormin, Barre Phillips, Stefano Scodanibbio, George Mraz e mille altri.
Come in tanti e sfaccettati frangenti della mia vita, compio un viaggio nel passato con curiosità e indulgenza; mi permetto di appassionarmi ancora a qualcosa che non sia finito sotto il setaccio delle rimozioni, delle inversioni di marcia. Qualcosa che neanche il peggior dolore è capace di sporcare: il sogno della musica e di musicisti chini sul loro strumento, intenti a cavarne fuori l’anima troppo a lungo sottovalutata, ignorata e circoscritta.
È stato un anno duro, crudele, e non è ancora finito. Se non avessi più di una passione, sarei alle corde. Se non credessi in quel che faccio, sarei un triste cadavere ambulante. Se non sapessi che l’anima di ogni uomo ha un suono – e non solo uno – che le corrisponde, non crederei nemmeno ai miei occhi nello specchio. E alla voce degli esseri umani.
È l’effetto Power Play, trent’anni dopo. Mica poco.
VI
La resurrezione di Glenn Hughes
Nel 1993 cercavo, senza molto successo, di fare il rappresentante di libri porta a porta. La mia percentuale era del dieci per cento, ma in quattro mesi di lavoro avevo incassato pochissimo. Molte porte in faccia, un paio di alterchi e l’inseguimento a opera di un cane inferocito.
Però sentivo che le cose mi giravano. Quando pensavo alla mia età, ventun anni, mi sentivo un leone.
I pochi proventi ottenuti dalle mie improvvisate vendite porta a porta li usavo per viaggi spartani, improntati alla più totale disorganizzazione mentale e spirituale, per il vizio del fumo e quello, più impegnativo, dei dischi.
Una sera – era un giorno d’inverno – mi telefonò un amico di vecchio corso, un altro fissato con la musica, appassionato come me di Deep Purple e qualsiasi cosa fosse affine alla grande band. Il classico concetto molto anglosassone di “band and relatives”. Così Piero mi annunciò con grande enfasi che il leggendario bassista e cantante Glenn Hughes – che, ci tengo a precisarlo, fu con i Deep Purple solo in tre altrettanto leggendari album virati a una celestiale e inedita commistione tra hard rock e funk – era tornato a incidere in veste di solista.
«Dopo essere stato per molti anni nei labirinti e nei materassi della cocaina, Glenn è tornato...»
«Materassi?»
«Sì, si dice, no? Si dice anche materassi... l’ho sentito dire a una persona.»
«Ed è per questo che si dice?»
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