I Mostri Nel Buio. Rebekah Lewis

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I Mostri Nel Buio - Rebekah Lewis

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borsetta vicino al lavabo e corse in camera da letto per finire di vestirsi.

      Aveva esagerato con la lingerie sexy, sperando che Adam si sarebbe divertito a levargliela di dosso una volta a casa. Un perizoma in pizzo color crema abbinato a un paio di autoreggenti e reggicalze accompagnavano un bustino che si legava dietro come un corsetto e sembrava uscita da un catalogo. O da un porno. Dipendeva da come sarebbe andata la festa!

      Entrò a fatica in una sottoveste ampia per dare una forma al vestito e poi indossò un paio di scarpe alte glitterate in oro. La gonna doveva essere indossata in due pezzi, bianca con uno strato di oro che risplendeva e brillava alla luce. Aveva legato i capelli neri a mezza altezza e non vedeva l’ora di vedere lo sguardo sul viso di Adam non appena l’avesse vista.

      Phoebe tirò la cordicella per spegnere la luce della cabina armadio, uscì e quando stava per chiudere la porta, si bloccò. In fondo all’armadio, una figura si mosse come un’ombra più scura delle altre. L’aveva già notato altre volte da quando si era trasferita in questo appartamento un paio di mesi addietro. Se accendeva la luce, non vi era mai nulla e non riusciva a spiegarsi che cosa proiettasse quell’ombra in movimento. Scrollò le spalle e chiuse la porta, controllando che rimanesse chiusa. Quella maledetta alle volte si apriva da sola, e allora le venivano i brividi pensando che qualcosa la stesse osservando.

      “Si tratta di uno scherzo della mente”, mormorò e afferrò la borsetta e il telefono. Mandò un messaggio a Adam per ricordargli di uscire dal lavoro e andare alla festa. Il poveretto aveva più a cuore i conti e la finanza della sua società che divertirsi.

      DOVE DIAVOLO ERA ADAM? Phoebe si spostava da un piede all’altro e cercava di vedere oltre le teste di dozzine di invitati in maschera. Le sue scarpe erano meravigliose a vedersi, ma non altrettanto le bolle ai piedi. Avrebbe ucciso per un paio di pantofole. Adam non era ancora arrivato e lei si stava stancando a socializzare. Le facevano male i piedi, e indossava tutta quella roba sexy sotto il vestito perché pensava che ci sarebbe stato un po’ di movimento quella notte mentre si sentiva e sembrava una principessa, ma a quanto pare non era così.

      Con un sospiro, si diresse verso una delle stanze al secondo piano dove si lasciavano i cappotti così da stare un po’ da sola. Chiuse la porta e raggiunse con passi lenti il letto su cui si sedette e tirò fuori il cellulare dalla pochette. Una volta liberati i piedi dalla pressione delle scarpe, sospirò di sollievo. Phoebe non osava però levarsi le scarpe, altrimenti rimetterle sarebbe stato dieci volte peggio. Invece, tentò di chiamare Adam, ma partì immediatamente la segreteria. “Dove sei?” ringhiò prima di riattaccare. Poi controllò i suoi messaggi e sorpresa… niente.

      Il cigolio di una porta le giunse delicatamente alla sua destra e trasalì. La porta dell’armadio si aprì e lei strizzò gli occhi, cercando di capire se ci fosse qualcuno al suo interno. Aveva interrotto qualcuno che pomiciava o che, peggio ancora, stava rubando dai cappotti lasciati sul letto?

      Quando il radiatore scalciò, rise di sé. Era soltanto una vecchia casa. Non c’era un mostro appostato nell’armadio là dentro o nel suo appartamento. I mostri non esistevano. Sentendosi una sciocca, Phoebe riprese il suo spirito e uscì dalla stanza. Era stato bello avere un momento per sé senza gente attorno, ma non era pronta a continuare di fare finta di essere felice quando non aveva idea se Adam avesse intenzione di arrivare. Il rifiuto aveva effettivamente rovinato la serata.

      Perché non riusciva a trovare qualcuno che l’apprezzasse? Che volesse andare in giro e fare delle cose? Che rispondesse alle sue chiamate? Non sembrava troppo chiedere di essere cercata, desiderata. Avere l’idea che il mondo di qualcuno non sarebbe stato completo senza di lei.

      Phoebe ricacciò indietro le lacrime, recuperò il cappotto e scese le scale verso la porta di ingresso. Salutò in maniera frettolosa e si precipitò alla sua auto. Una volta dentro, lasciò uscire le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento e mandò un breve messaggio per rompere con Adam. Ne aveva abbastanza di questa merda. Era il momento di vivere per sé stessa. Se lui non la voleva, aveva finito di aspettare che lui cambiasse idea. Era finita tra di loro e sperava che si sarebbe arrabbiato quando avesse visto il messaggio.

      Quando sollevò il capo, un movimento nelle ombre attirò la sua attenzione tra gli alberi davanti al lato destro della sua auto. Strizzò gli occhi. Un grosso animale era fermo nel buio, nascosto dalla vista completa. Aveva la forma di un cervo e riusciva vagamente a distinguerne le corna. Oh, essere selvaggi e non preoccuparsi di nulla se non di ciò che la natura intendeva. Phoebe mise in moto l’auto e i fari illuminarono l’area dove prima stava il cervo.

      Non c’era nulla.

      Capitolo II

      UOMINI. CHI NE AVEVA bisogno? Phoebe entrò nel suo appartamento e si chiuse la porta alle spalle con violenza. Mai stata più contenta di vivere al piano terra di quando la sua notte era stata una merda. Prima, si sarebbe tolta quei vestiti, poi avrebbe fatto una doccia e avrebbe mandato giù mezza vaschetta di gelato.  Forse non in questo ordine. Si lavò la faccia. Aveva dovuto accostare due volte perché aveva pianto così tanto che il mascara le si era infilato negli occhi.

      Phoebe tirò su col naso e percorse la piccola anticamera che portava al bagno e si pulì velocemente di quello che rimaneva del trucco. Si guardò allo specchio e si mise a piangere a dirotto. Tutti quegli sforzi per farsi bella per quello stronzo e lui non si era fatto vivo. Le aveva dato buca e non l’aveva chiamata per dirglielo o darle una ragione. Nemmeno un cazzo di scusa. La tradiva o semplicemente non la desiderava? Voleva sempre cambiarla. Tagliati i capelli. Non mangiare quel biscotto o ingrassi. Dovresti truccarti più spesso. Fatti sbiancare i denti. Hai mai pensato di rifarti il seno? Phoebe si strinse tra le braccia e cercò di trattenere una nuova ondata di lacrime. Adam non se le meritava.

      Rimase paralizzata mentre il rumore di passi delicati risuonava dall’altro lato della parete tra il bagno e la camera da letto. “Adam?” Si voltò, soffiandosi il naso in un fazzoletto di carta per poi buttarlo nel cestino. “Sei tu?”. Forse era venuto per farle una sorpresa… e farsi sbattere il culo fuori dal suo appartamento. Stronzo.

      Si avviò verso l’ingresso e raggiunse con una mano l’interruttore della camera da letto. Phoebe sbirciò dietro l’angolo. “Adam?”. La porta dell’armadio era spalancata in una stanza vuota mentre sapeva di averla chiusa prima di andare alla festa. Senza pensarci, corse verso il soggiorno per prendere il telefono e le chiavi. Non si fermò per chiudere l’appartamento, ma corse diretta all’auto.

      Una volta dentro, chiuse con violenza la sicura e chiamò la polizia.

      NON LE AVEVANO CREDUTO. Non c’era segno di effrazione e niente era stato rubato, per cui dissero che una chiave era l’unico modo in cui qualcuno si sarebbe potuto introdurre in casa e aprire l’armadio. Però Phoebe aveva sentito dei passi, ma non poteva dimostrarlo. Una donna poliziotto aveva notato il suo viso gonfio per le lacrime e le chiese se le era capitato qualcosa di traumatico, così le raccontò che Adam non si era fatto vedere alla festa e che aveva rotto con lui. Naturalmente, la conclusione fu che Adam aveva tentato di spaventarla e la poliziotta consigliò a Phoebe di passare la notte da un’amica e cambiare la serratura l’indomani mattina.

      Saggio consiglio, se quella fosse stata la realtà de fatti. L’avrebbe saputo se fosse stato Adam. Non si faceva problemi a farle una sfuriata se non era contento. Se gli fosse importato abbastanza di aver rotto con lei via sms, l’avrebbe sentito. Lui non avrebbe perso tempo a intrufolarsi nel suo appartamento per svago.

      Abbattuta, Phoebe rientrò nel suo appartamento, si liberò delle scarpe e si diresse in camera da letto. Voleva solo dormire. Lanciò un’occhiata al telefono

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