Nel Segno Del Leone. Stefano Vignaroli

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Nel Segno Del Leone - Stefano Vignaroli

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       Noi dobbiamo guarire dando amore e amore.

       Guarire è liberare l’amore che abbiamo dentro,

       e sprigionare la forza che sentiamo dentro.

       È tempo di sbocciare e di assaporare l’aria frizzante

       e piena d’amore.

      Le ragazze ora, dodici in tutto, compresa Lucia, danzavano in cerchio tenendosi strette per mano, completamente nude, alla luce del fuoco e delle stelle.

      

       In questa Luna Nuova, che porta cambiamento

       e insegnamento, dobbiamo solo abbracciarci tra noi

       ed essere capaci di amare fino in fondo.

       L’ariete porta in dono il fuoco dell’amore

       .

      A quel punto, il cerchio si ruppe e, a due a due, le ragazze si lasciarono cadere a terra, iniziando a carezzarsi tra loro, i corpi madidi di sudore, che luccicavano alle fiamme. Mani accarezzavano fianchi, lingue cercavano turgidi capezzoli, labbra rosse come il fuoco baciavano roride vagine. La terra accoglieva mugolii e grida sommesse, via via che ognuna delle giovani raggiungeva il sommo piacere. Poi si cambiava compagna e si ricominciava il rito. Lucia aveva raggiunto l’apice già tre volte, quando si accorse che il fuoco stava scemando, la luminosità della volta celeste si stava attenuando e che, verso est, si iniziava a vedere il chiarore che preludeva al nuovo giorno. Si rese conto di essere rimasta sola, che accanto a lei non c’era più nessuno. Che avesse immaginato tutto? Che, in preda a una trance incontrollabile, avesse solo praticato dell’autoerotismo, stimolata dal calore del fuoco? Non importava! La notte era stata meravigliosa, il suo corpo aveva goduto, si era fuso con alcuni degli elementi della natura, con il fuoco, con la terra, con l’aria, con l’acqua, che ora sentiva scorrere in un ruscello lì vicino. Insomma, era in pace con se stessa. Anche i Crocus si erano essiccati al punto giusto e potevano essere utilizzati per scopi curativi. Ma adesso doveva essere lesta a ritornare al convento. O a decidere di non ritornarci affatto, per evitare che ai frati, soprattutto al Priore, venisse qualche sospetto su di lei e sul suo comportamento. Non si addiceva certo a una donzella aggirarsi per i boschi in una notte di luna nuova, soprattutto se coincideva con l’equinozio di primavera. Sarebbe stata subito tacciata di essere una strega!

      Pertanto, raccolse le sue cose, recuperò il suo destriero e si diresse verso il centro abitato di Apiro. Meglio raccontare al Priore di essere partita di buon ora per non disturbare i frati. In fin dei conti, Germano degli Ottoni, alla cui dimora si stava recando, avrebbe confermato la versione dei fatti, qualora ci fosse stata ombra di dubbio da parte di qualcuno. Ma forse erano preoccupazioni del tutto inutili.

      CAPITOLO 10

      Con l’impressione di essere spiati nel loro percorso attimo per attimo, Andrea, Fulvio e Geraldo raggiunsero Ferrara che era già buio da un bel pezzo. Avevano illuminato il cammino con le torce, sobbalzando a ogni minimo rumore. Solo la visione dell’imponente sagoma del castello estense era riuscita ad acquietare i loro animi. In effetti, dal borgo di Pallantone a Ferrara non avevano pressoché incontrato anima viva, ma il timore di incocciare di nuovo in bande di Lanzichenecchi aveva pervaso i loro animi per tutto il tragitto. Il castello di San Michele era un enorme baluardo, circondato da un importante fossato, fatto erigere circa un secolo e mezzo prima per volere del Marchese Nicolò II. Andrea e i suoi compagni entrarono di gran carriera attraverso la porta principale, ritrovandosi nel piazzale interno della fortezza. Non furono intercettati dalle guardie solo perché queste ultime erano state avvisate del loro arrivo dal Duca Alfonso in persona. Altrimenti tre uomini armati, che attraversavano il ponte sul fossato per raggiungere l’interno della fortezza, sarebbero stati facile bersaglio delle frecce delle guardie dagli spalti. Difatti, anche se la porta era aperta, tutta la fortezza era ben presidiata da sentinelle, presenti in gran numero sulle torri e sui camminamenti.

      Alfonso I d’Este aveva al tempo 47 anni, ma ne dimostrava molti di più, forse provato nella vita dal matrimonio con Lucrezia Borgia, da cui aveva avuto ben 7 figli, di cui 3 morti in età neonatale o puerile, e da una grave ferita riportata nell’anno del Signore 1512 nella battaglia a difesa di Cento. Ricevette Andrea nella sala delle udienze, vestito di tutto punto con una zimarra di velluto rosso, stretta in vita da un’elegante cintura di seta e sovrastata da un mantello di ermellino. Al collo del Duca spiccava una grande collana metallica finemente lavorata, con un pendente dove era raffigurata l’effige della sua defunta moglie, Lucrezia, morta di parto nel 1519. Anche Isabella Maria, la figlia nata in quella sfortunata occasione, era venuta a mancare a soli due anni di età. Il Duca aveva fama di guerriero, tanto che anche durante le udienze, come in quel momento, portava la spada infoderata sul suo fianco sinistro, con l’elsa che sporgeva dalla cintura in maniera evidente. Dall’altro lato, sulla destra, una scarsella doveva servirgli per conservare denaro contante da utilizzare a ogni occasione fosse stato necessario. Alfonso I d’Este non solo era un grande esperto di tecnica balistica, ma era anche un maestro d’artiglieria, un metallurgista e fonditore di cannoni, tanto da essere soprannominato il Duca Artigliere. Nel 1509, durante la battaglia di Polesella, i cannoni del Ducato di Ferrara, fusi sotto la sua supervisione, erano riusciti a sgominare una flotta veneziana che aveva risalito il Po per raggiungere la città estense. Il Duca e i suoi artiglieri avevano atteso che una provvidenziale piena del Po sollevasse le navi fino alla linea di tiro dei cannoni, poi avevano fatto fuoco, distruggendo gran parte della flotta. Al tempo, la sconfitta navale della Repubblica Veneta da parte di un esercito terrestre aveva destato grande impressione, e aveva favorito il riappacificarsi dei rapporti tra la Serenissima e la città di Ferrara. Di recente il Duca aveva messo a punto una nuova tecnica di fabbricazione della polvere da sparo, da lui usata per la realizzazione di una nuova arma micidiale, detta granata, che era andata a sostituire i proiettili esplosivi. La granata, lanciata con l’utilizzo di armi da fuoco, cannoni o bombarde, si attivava al contatto col suolo. La polvere da sparo contenuta all’interno esplodeva e la deflagrazione spargeva tutto intorno materiali, quali schegge e frammenti metallici, atti a danneggiare il nemico.

      Il Duca, gli occhi stanchi e arrossati, invitò Andrea ad avvicinarsi, e nel contempo chiamò accanto a sé un altro uomo, che apparve baldanzoso da una porta secondaria. Con non poca sorpresa, Andrea riconobbe Franz, il Lanzichenecco con cui aveva avuto a che fare non più di qualche ora prima. L’uomo si accostò al Duca con un ghigno stampato in volto. Andrea, di rimando, lo guardò in cagnesco. Ma doveva fare buon viso a cattivo gioco e attendere che fosse il Duca Alfonso a prendere la parola.

      Con un cenno della mano, quest’ultimo fece accomodare i suoi ospiti alla tavola imbandita. I servi versarono il vino nelle coppe e poi si congedarono, lasciando il terzetto alla totale riservatezza.

      «Oggi è un giorno fortunato per me», attaccò il Duca sollevando la coppa e assaporando il vino. «Quasi in contemporanea, uno dal nord, l’altro dal sud, sono giunti qui a Ferrara, al mio cospetto, due valorosi guerrieri, anzi, oserei dire, due valorosi condottieri. Orsù, stringetevi la mano e fate amicizia tra voi, perché è mia intenzione affidarvi un’importante missione, che porterete a termine insieme. Franz di Vollenweider, Signore del sud Tirolo, vi presento il Marchese Franciolini, Signore delle terre dell’Alto Montefeltro!»

      Andrea, pensieroso, sorseggiò il vino, addentando un pezzetto di focaccia intinto nel sugo del pasticcio di faraona.

      «Signore del Sud Tirolo?», fece Andrea rivolto al Duca. «Al borgo di Pallantone, oggi all’ora di pranzo,

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