Spasimo. Federico De Roberto

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Spasimo - Federico De Roberto

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vero?…—interruppe a sua volta la baronessa.—Non si può credere quanto grande fosse il suo fervore! Io ne so qualche cosa. Non faceva mai una passeggiata che non avesse una chiesa per meta. Le sue escursioni preferite erano nel distretto di Echallens, a Brétigny, ad Assens, a Villars-le-Terroir, per le chiese cattoliche che vi s'incontrano. La domenica, le feste, passava lunghe ore, qui, a San Luigi, in ginocchio, finchè non si reggeva più… Volevo appunto osservare: è perfino incredibile come, con tanta fede, abbia potuto fare quello che ha fatto.

      Il principe non diceva più nulla. Il tremor nervoso che lo aveva scosso dal principio si veniva sedando; la sconvolta, violenta, paurosa espressione del livido viso e dei rossi occhi si trasformava: pallido, sfinito, disfatto, pareva sul punto di mancare anch'egli.

      —Era sola quando si è uccisa?—continuò a interrogare il magistrato.

      —Sola.

      —Parlaste con lei, stamani?

      —Sì, parlai.

      —Era triste?

      —Mortalmente.

      —Si potrebbe vedere se ha lasciato qualche scritto.

      La baronessa, battendo allora una mano contro l'altra, esclamò:

      —È ciò che ho detto fin da principio!…

      E il commissario, a un cenno del giudice, si diede alla ricerca.

      La camera della morta non aveva molti mobili. Il letto, un armadio con lo specchio, un cassettone, una piccola scrivania disposta contro la finestra, alla luce, e un tavolinetto da lavoro, in un angolo, ne formavano l'addobbo. Sulla scrivania due pile di libri inglesi dalle copertine bianche, una scatola di carta da lettere, una cartella di stoffa antica e un calamaio da viaggio. Altri libri stavano sul tavolino da lavoro e sul comodino accanto al letto. Il commissario di polizia li rimoveva ad uno ad uno, apriva le cassette dei mobili, nessuna delle quali era chiusa, e data un'occhiata agli oggetti d'eleganza muliebre dei quali erano piene, le richiudeva. Nella scrivania vecchie scatolette di cartone contenevano la corrispondenza epistolare della defunta; c'era anche un portafogli pieno di valori italiani e francesi e qualche migliaio di lire in monete d'oro e d'argento. In fondo alla cassetta di destra una scatola a foggia di libro, ricoperta di velluto nero, era chiusa da una minuscola chiave; sul punto che il commissario stava per aprirla il principe fece un passo incontro a lui, dicendo:

      —È il suo libro di memorie… il giornale della sua vita…

      Pareva, dal tono col quale diede quell'indicazione, dall'atteggiamento di tutta la sua persona, che volesse difendere contro gli sguardi indiscreti l'intimo pensiero della sua povera amica. Ma la baronessa di Börne:

      —Qui appunto si potrà trovare qualche cosa!…—esclamò avvicinandosi al giudice, il quale prendeva dalle mani del commissario il libro che questi aveva tratto dalla nera custodia.

      Era anch'esso rilegato di nero e fregiato d'argento, come un libro mortuario; e già quella vista diceva la tristezza e il dolore dei quali la vita dell'infelice doveva essersi abbeverata. Il giudice scorse rapidamente i fogli: la scrittura era piuttosto grande e magra, poco inchiostrata, elegante e d'una nitidezza mirabile. Il libro era forse pieno per tre quarti; e l'indagatore soffermavasi con maggior attenzione sulle ultime pagine; ma dopo aver letto scrollò il capo:

      —Non s'intende,—disse;—non è una confessione…

      Il commissario proseguiva frattanto le ricerche in uno stanzino attiguo, lo spogliatoio, dove un altro armadio, il lavabo ed i bauli tenevano tutto il luogo disponibile. Non vi trovò nessuna carta. Rientrato nella camera, la traversò dirigendosi alla sala: qui le ricerche furono ancora più brevi ed inutili; perchè, oltre i divani e le poltrone, solo una tavola piena di minuti ninnoli e il pianoforte sul quale stava spiegato un fascicolo del Pessard la mobigliavano. Già il commissario tornava sui proprii passi, quando una voce di pianto ed esclamazioni d'ambascia lo fecero rivoltare: i gendarmi, obbedienti agli ordini ricevuti, vietavano l'entrata ad una donna vestita di scuro che portava sul capo il velo nero delle popolane lombarde.

      —Ah! Signore! Ah! Signore!…—esclamava costei, a mani giunte, col magro viso solcato da lacrime ardenti.—Vederla!… Ancora una volta vederla!… La padrona mia… la mia buona padrona!… Ah, Signore, vederla!…

      Era la Giulia che tornava in quel punto: piccola e magra, di dubbia età, ella appariva disfatta dall'ambascia.

      —Lasciate che passi,—ordinò il magistrato cui la baronessa spiegò che, servendo la morta da lunghissimi anni, questa donna aveva goduto di tutta la sua confidenza.

      E come, entrata barcollante e lacrimosa, a mani giunte, ella si avanzò verso la salma, il brivido nervoso riprese a scuotere la persona del principe, nel suo viso tornò a leggersi l'atterrito smarrimento, il pauroso dolore di poco prima, quasi la vista d'una persona cara alla morta, quasi lo strazio di questa persona rincrudisse il tormento suo. Egli non guardava più il cadavere ma la piangente, e pareva che si protendesse verso di lei, che volesse accostarsele, come per unire il proprio dolore a quello di lei, per parlarle della morta, per udirla parlar della morta. Tutti, gli uomini della giustizia, i dottori, la stessa baronessa erano impressionati dall'ansiosa attitudine di quel dolente; solo la straniera restava rigidamente atteggiata, impassibile e quasi senza sguardo.

      —Come disse ha fatto!… Lo disse e l'ha fatto!…—gemeva la donna dinanzi al cadavere.—Voleva la morte… la chiamava… Ah, poveretta!… Ah, Signore!… E mi mandò via, mi mandò… per essere libera… perchè io non le leggessi in viso!… Ah, se le fossi stata vicina!… Quante volte, poveretta; quante volte pregò Dio di farla morire!… E s'è uccisa!…—ripetè con voce più rotta, quasi avesse potuto fino a quel momento dubitare e sperare, ma ricevesse a un tratto l'irrecusabile conferma della sciagura.—S'è uccisa!… È morta!… Signore! Signore!…

      La baronessa, passandosi una mano sugli occhi e sospirando, le si fece dappresso.

      —Basta, ora, povera donna!… Bisogna pur troppo farsene una ragione!… Siate calma! Basta!… Dite piuttosto a questi signori, dite alla giustizia: dove vi mandò, perchè vi mandò?

      —In città, a pagar delle note… a comperar delle cose… Io non so più… Pareva che volesse venire con me, quando si levò… poi mutò opinione, mi mandò via…

      —Vi diede qualche carta? Sapete se scrisse qualche lettera, iersera o stamani?

      —Non ieri, stamani. Stamani scrisse una lettera.

      —A chi era diretta?

      —A suor Anna.

      —Chi è suor Anna?—domandò il magistrato, che aveva lasciato pazientemente interrogare la verbosa signora.

      —Suor Anna Brighton, l'antica sua maestra inglese.

      —Dove sta?

      —Non so. C'era il nome sulla busta, un nome straniero.

      —Non sapete neppur voi l'indirizzo?—soggiunse il giudice rivolto al principe Alessio.

      —Lo ignoro; però…

      La sua ansia pareva sedarsi, egli stava per dire qualche cosa, quando s'udirono ancora dal fondo della sala gli agenti della polizia

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