Spasimo. Federico De Roberto

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Spasimo - Federico De Roberto

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egli pensava di conquistare la gloria, sdegnoso e neppur bisognevole di più reali compensi. Si ravvide alla morte del padre, sostegno della numerosa famiglia. Compreso il dovere di sostituirlo, egli disse da un giorno all'altro addio alla fantasia favolosa e indirizzò l'attività sua per una via più positiva. I primi esercizii non gli furono però inutili del tutto; l'abitudine dell'indagine psicologica, contratta nel considerare avvenimenti fittizii, gli giovò a districare i misteri proposti alla giustizia inquirente; cominciato a studiare la vita sopra i libri, egli potè presto comprendere come realmente è.

      La professione politica e la giudiziaria sono forse quelle che più rapidamente e meglio d'ogni altra facciano conoscere gli uomini; ma dove l'uomo politico è egli stesso in preda a qualcuna di quelle passioni che presume giudicare negli altri, il magistrato, indifferente, sereno, straniero agli interessi che vede agitarsi d'intorno, è meglio d'ogni altro in grado di leggere nel libro del cuore. Ora il Ferpierre, dato sfogo con le artistiche esercitazioni della prima gioventù alle vivaci passioni, aveva compreso in tempo quel che c'è d'esagerato, di falso e di malsano in una troppo assidua prosecuzione poetica dell'esistenza; e come i suoi sentimenti erano divenuti più austeri, più severi erano divenuti i suoi giudizii. Il vecchio fondo morale della razza elvetica, la serietà quasi triste accumulata nel cuor della razza dalla contemplazione delle Alpi giganti, la rigidezza quasi ingrata di quel protestantesimo che escluse un tempo da Ginevra la musica come arte troppo voluttuosa, si ridestarono dopo i primi ardimenti; e la scapataggine un poco voluta del giovane poeta diè luogo alla rettitudine inflessibile dell'uomo maturo.

      Contro i personaggi del dramma d'Ouchy, che gli fu narrato dal giudice di pace ai Cyclamens, dove subito accorse alla chiamata, il Ferpierre si sentiva pertanto animato da una secreta diffidenza. Certo la morta gl'ispirava molta pietà; ma se ella stessa aveva voluto uscir di vita, il biasimo contrastava al compatimento. Il legame che l'aveva unita con il principe Zakunine era del resto fuor della legge. L'amicizia tra lei ed il Vérod ne restava contaminata. Senza ancora aver visto l'accusatore, udendone soltanto il nome, il magistrato credè di riconoscere in lui Roberto Vérod, lo scrittore ginevrino che viveva da molti anni a Parigi, di dove diffondeva per il mondo libri pieni d'amari insegnamenti. Anzi, se non s'ingannava, costui gli doveva essere noto più intimamente; perchè, quindici anni addietro, il Vérod entrava nella facoltà di lettere dell'Università di Ginevra, mentre egli stesso vi faceva il penultimo corso degli studii legali, e un circolo di studenti li aveva accolti entrambi durante due anni. Ora perchè mai il giovane vedeva nella morte della contessa un assassinio e presumeva vendicarlo, se non perchè era stato rivale del principe e amante della defunta? L'attitudine di sfida superba della straniera, la durezza dei suoi sguardi, la certezza che anch'ella doveva essere affiliata al nihilismo, avevano disposto il giudice di pace contro di lei; ma tutta la severità del Ferpierre s'accumulava sul capo del principe.

      Egli lo conosceva da lungo tempo per fama. Sapeva che, con uno dei maggiori nomi e una delle più larghe fortune del suo paese, ne era stato bandito per complicità in una congiura contro la vita d'un generale. Sapeva che l'esiliato aveva proseguito a cospirare con maggior lena, che era divenuto uno dei più temibili direttori del partito rivoluzionario europeo, che una condanna di morte gli pendeva sul capo. E sapeva ancora che, nonostante lo scopo politico paresse prendere tutta l'attività del ribelle, costui trovava ancor tempo di fare una vita piena d'avventure galanti, di passare d'amore in amore, ripagando col dolore dell'abbandono e del tradimento le sciagurate incapaci di resistere alla sua seduzione. E da questo ribelle sanguinario, da questo indegno Don Giovanni, la contessa d'Arda s'era lasciata sedurre!… Ma aveva ella voluto morire per non assistere alla rovina d'un sogno d'amor fedele, oppure veramente il principe e la nihilista l'avevano uccisa?

      Il Ferpierre, incerto e confuso dinanzi al mistero, discuteva la sera stessa della catastrofe, alla villa, questi ed altri quesiti con il giudice di pace, dopo aver ordinato la traduzione del cadavere alla sala incisoria e il sequestro di tutte le carte che si trovavano ai Cyclamens. Posto pure che l'amore o il capriccio del principe per la contessa fosse finito, bastavano la noia ed il fastidio, od anche i malintesi e il disaccordo a spiegare l'omicidio—se un omicidio era stato commesso? La ragione addotta dall'accusatore e riferita dal giudice di pace, cioè la malvagità dei nihilisti, non aveva valore senza un più particolare ed efficace movente. Distruggere una vita per il solo piacere di distruggerla non era da nihilisti, ma da folli. Bisognava dunque che costoro fossero stati spinti da una passione, da qualche interesse. Forse il male che vedeva ordire al principe, le congiure alle quali lo sapeva mescolato, il sangue che udiva essere sparso per opera di lui, avevano atterrito la contessa: volendo impedire che perseverasse nell'opera tremenda ella poteva aver sorpreso qualche suo secreto, o un secreto non suo; e la rigida disciplina della setta misteriosa aveva forse armato quell'uomo e la sua complice? Questa supposizione alla quale il giudice di pace attribuiva un certo fondamento, pareva al Ferpierre, quantunque non del tutto inammissibile, poco probabile.

      Era più probabile che, se delitto c'era, si trovassero dinanzi a un delitto d'amore? Il principe, dopo aver disamata quella donna, ricominciava ad amarla e l'aveva uccisa per gelosia? E di chi sarebbe stato geloso, se non di quel Vérod che era tanto turbato dalla morte della contessa, e assumeva, non richiesto, la parte d'accusatore e di vindice? O non piuttosto ella stessa aveva commesso il misfatto perchè amava Zakunine ed era gelosa dell'amore che vedeva da lui portato alla Italiana?… Il delitto, chiunque fosse il colpevole, qualunque fosse lo scopo, non aveva potuto tuttavia essere consumato senza che tra l'assassino e la vittima fosse avvenuta una lotta, sia pur breve; ma nella camera mortuaria non se ne trovava vestigio, nè sulla persona della morta. Dalla posizione dell'arma, che stava con l'impugnatura in fuori e la canna rivolta verso il cadavere, i dottori avevano arguito che la contessa, se era suicida, doveva essersi uccisa in piedi; l'arma, cadendole di pugno, aveva compito una rotazione che ne spiegava la giacitura al suolo. Se pure non pareva molto naturale che la disgraziata avesse portato la mano sopra sè stessa stando ritta, contrariamente a ciò che fanno quasi tutti i suicidi, la circostanza che il revolver le apparteneva ed era tenuto da lei nascosto escludeva che un assassino avesse potuto servirsi proprio di quello. Inoltre da quel revolver mal chiuso una cartuccia era venuta fuori nella caduta: ciò si spiegava molto bene da parte d'una donna poco pratica nel maneggio delle armi, d'una suicida le cui mani dovevano per altre ragioni tremare, e non si spiegava da parte d'un assassino.

      Per potersi fermare sopra un'ipotesi bisognava ancora aspettare i risultati dell'autopsia; nel frattempo il Ferpierre, scelta la sala da pranzo della villa come suo gabinetto per l'inchiesta da compiere sulla faccia dei luoghi, ordinò che vi fosse introdotto il Vérod.

      Quando il giovane apparve, il pallore del suo viso, l'ambascia dello sguardo, l'imbarazzo dell'atteggiamento confermarono chiaramente come egli dovesse esser legato alla defunta da un sentimento molto forte e delicato ad una volta. E il giudice, senza esitazione, quantunque tanto tempo fosse passato, tosto riconobbe l'antico studente di lettere. Egli rammentò d'averlo incontrato sovente, durante due anni, al circolo universitario ginevrino, e rammentò pure che fra i loro spiriti non era passato alcun moto di simpatia. Fin da quei giorni lontani l'indole triste ed amara dell'ingegno del Vérod si era rivelata nelle discussioni giovanili: nessuno dei sentimenti ai quali il Ferpierre aveva successivamente obbedito, nè gli entusiasmi poetici nè il dovere severo eran parsi intelligibili a quell'anima chiusa. Rammentava anch'egli l'antico incontro? Aveva chiesto del giudice istruttore sapendo chi fosse? Si sarebbe dato a conoscere?

      —Avete voluto parlarmi,—disse il Ferpierre, che rivolgeva a sè stesso queste domande pure ordinando sulla tavola le carte sequestrate nella camera della morta e del principe;—eccomi a voi. E innanzi tutto il vostro nome, l'età?

      —Roberto Vérod; trentaquattro anni.

      —Voi siete Vérod lo scrittore?

      —Sì.

      —Nato a Ginevra, domiciliato a Parigi?

      —Sì.

      Il giovane o non lo riconosceva o non voleva

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