I Robinson italiani. Emilio Salgari
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Читать онлайн книгу I Robinson italiani - Emilio Salgari страница 4
Per nove anni aveva percorso tutti quei mari con invidiabile fortuna, accumulando delle somme assai rotonde, affrontando vittoriosamente le ire dei marosi e le furie dei venti e senza mai cambiare i suoi bravi marinai dei quali mai aveva avuto a dolersi, ma nel suo penultimo viaggio, la fortuna aveva cominciato ad abbandonarlo.
Una tempesta che lo aveva sorpreso all'entrata dello stretto di Malacca, mentre da Rangun si recava a Singapur, aveva malmenata la sua nave in tale modo, da costringerlo, appena giunto a destinazione, a metterla in cantiere per delle lunghe riparazioni.
Quella disgrazia doveva essergli fatale.
Due dei suoi più valenti marinai, stanchi di quel riposo prolungato, avevano rotto l'arruolamento e si erano imbarcati su altre navi, sicchè, giunto il momento della partenza, aveva dovuto mettersi in cerca d'altri per completare l'equipaggio.
La mala fortuna gli aveva fatto trovare due marinai maltesi, sbarcati alcune settimane prima da una nave inglese. Perchè avevano lasciata la nave che dalle acque del Mediterraneo li aveva portati sulle coste della Malacca?... Nessuno lo sapeva ed il capitano Martino, che preferiva avere a bordo dei marinai del Mediterraneo e possibilmente degli italiani, non aveva cercato di scoprirne il motivo, tanto più che la nave inglese aveva lasciato il porto tre settimane prima, in rotta pei porti del Celeste Impero.
Pochi giorni dopo però, doveva pentirsene di quei nuovi arruolati. Appena in alto mare, fuori di vista dalle coste della Malacca, i maltesi avevano cominciato a dare segni d'insubordinazione.
Lavoravano il meno possibile, non compivano mai interamente i quarti di guardia sia notturni che diurni, si ribellavano ai comandi del nostromo, poi a quelli del secondo e finalmente a quelli del capitano.
Dovendo poggiare a Varauni per prendere una ragguardevole provvista di olii canforati, pure destinati agli isolani delle Marianne, aveva deciso di sbarazzarsene; ma giunto nel porto della capitale del regno di Borneo, i due maltesi, che da qualche giorno pareva che fossero pentiti, con mille promesse erano riusciti a farsi mantenere a bordo.
Era stato precisamente a Varauni che il capitano Falcone aveva imbarcato, in qualità di passeggiero, quell'uomo che abbiamo udito chiamare il signor Emilio, dietro speciali raccomandazioni del console olandese.
Quel passeggiero non era un olandese, ma un italiano come tutto l'equipaggio della Liguria. Era un veneziano da parecchi anni stabilitosi nel Borneo, dove aveva fatto una considerevole fortuna trafficando in canfora.
Antico ufficiale di marina, poi esploratore per conto del governo olandese, quindi negoziante ricchissimo, si era imbarcato per fare delle esplorazioni per suo conto nelle isole del grand'Oceano.
Uomo istruitissimo, amabile, energico quanto il capitano, aveva tenuto buona compagnia a tutti, facendosi amare dai marinai e dagli ufficiali.
La navigazione era stata ripresa sotto i più lieti auspici, essendo il mare tranquillissimo ed il vento favorevole.
Già la Liguria aveva perduto di vista le coste del Borneo e s'inoltrava attraverso il mare di Sulu, compreso fra il vasto gruppo delle Filippine al nord e all'est, la lunga e sottile isola Palavan all'ovest e le sponde settentrionali del Borneo, quando una disputa violentissima, che doveva avere più tardi terribili conseguenze, scoppiò a bordo, per opera dei due turbolenti maltesi.
Essendosi rifiutati di prendere parte alla manovra, mentre la Liguria correva delle lunghe bordate avendo il vento contrario, un bollente palermitano, stanco di vedere quei due fannulloni con le mani in tasca, perduta la pazienza, aveva lasciato andar loro due sonori scapaccioni.
I due maltesi, più bollenti del siciliano, avevano estratti i coltelli, assassinando un catanese che era accorso in aiuto del compatriotta.
Il capitano comparso sul ponte, attirato dalle grida dei rissanti, aveva atterrato i due furfanti con un buon colpo di manovella sapientemente applicato sui loro dorsi, poi li aveva fatti incatenare e cacciare nella sentina, per consegnarli più tardi alle autorità spagnuole di Guam.
Pareva che tutto fosse finito, quando una sera, mentre una calma assoluta aveva immobilizzata la Liguria in mezzo al mare di Sulu, i due maltesi che si trovavano forse in possesso d'una lima, erano riusciti a evadere imbarcandosi sull'unica scialuppa che era rimasta a bordo e che secondo l'usanza delle nostre navi, era stata tenuta ormeggiata alla poppa.
Ma questo non era tutto: i due miserabili, forse per vendicarsi del colpo di manovella del capitano, avevano dato fuoco alla dispensa e fors'anche al carico di cotoni.
I lettori sanno il resto: la nave, due ore dopo, balzava in aria per lo scoppio delle polveri e la fumante carcassa s'inabissava sotto le onde tenebrose del mar di Sulu.
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L'orribile rimbombo era appena cessato e la pioggia di rottami incandescenti era terminata, quando in mezzo al gorgo enorme scavato dal rottame nella sua immersione, si udì ad echeggiare una voce umana.
Ora risuonava acuta, limpida, ed ora strozzata come se la gola dell'uomo che la emetteva, volta a volta venisse bruscamente invasa dalle onde prodotte dal gorgo.
Una forma oscura s'agitava fra la spuma, spariva un istante, poi ricompariva ed allora la si vedeva agitare le braccia con suprema energia.
Chi era quel fortunato che ancora sopravviveva all'orrendo disastro, mentre forse tutti gli altri avevano seguito la povera nave attraverso i profondi abissi del mare?...
La luna che allora cominciava a sorgere a fior dell'orizzonte, facendo scintillare getti d'argento fuso, permetteva di vedere quel superstite della tremenda esplosione.
Era un marinaio giovane ancora, poichè non doveva avere più di venticinque a vent'otto anni, colla pelle del viso assai abbronzata, i lineamenti marcati, gli occhi neri e vivaci ed i capelli e la barba pure nera. Era uno di quei tipi che s'incontrano di sovente nella riviera di levante o di ponente della Liguria, veri tipi di marinai pieni d'audacia e di fuoco.
Quantunque appena sfuggito al tremendo pericolo e solo, su quel mare che era forse abitato dai feroci pesci-cani, mostri comunissimi nelle acque della China e della Malesia, pareva tranquillo.
Nuotava con sovrumana energia, alzandosi sulle onde per gettare all'intorno dei rapidi sguardi, e fra una battuta dei piedi e delle mani, gridava:
— Ohe!... Da questa parte! —
Nessuno però rispondeva alla sua voce, all'infuori dei gorgoglii delle acque ancora agitate dal gorgo scavato dalla nave. Erano adunque tutti periti, i marinai e gli ufficiali della Liguria?... Maledizione sui miserabili che avevano provocato l'incendio e l'esplosione!...
Il marinaio avanzava sempre, cercando qualche rottame della disgraziata nave per avere almeno un punto d'appoggio, ma la luna non rischiarava ancora sufficientemente il mare: bisognava aspettare che si alzasse di più sull'orizzonte.
Per la ventesima volta aveva lanciata la sua chiamata, quando gli parve di udire, in distanza, una voce umana.
S'arrestò anelante, trattenendo il respiro, rovesciandosi sul dorso per mantenersi a galla, senza aver bisogno di muovere