La famiglia Bonifazio. Caccianiga Antonio
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I prigionieri erano partiti per Mantova. Stefano fu gettato solo in una cella angusta, umida, oscura ed infetta, e pensava ai suoi cari, alla disperazione della moglie e della madre, all'afflizione del padre, alla bambina, alla casa, alle dolci abitudini domestiche. Quel cambiamento repentino di vita, quel rapido trapasso dalle gioie serene della famiglia, alle torbide agitazioni d'un processo pericoloso, dall'aria profumata d'un parco all'afa nauseabonda del carcere, era un colpo troppo violento per restare senza conseguenze [pg!88] sopra un giovane felice ed avvezzo all'aria libera dei campi.
Quando i patemi d'animo, che lacerano il cuore, sono accompagnati da tutte le angustie del corpo, la natura umana soccombe.
Dopo un accesso violento di disperazione, di furore e di lagrime, Stefano cadde sfinito sul fetido pagliericcio della prigione, e gli parve di essere stato sepolto vivo. Pensava alla vita passata come ad un altro mondo, abitato in un'epoca lontana, prima d'essere precipitato in fondo d'un precipizio. Provava una sete ardente accompagnata da affanni e da nausea.
Fu trascinato davanti il giudice inquisitore colla febbre; le arterie delle tempie gli battevano come due martelli. Non intendeva le domande che gli venivano indirizzate, rispondeva con sdegnoso disprezzo, con pungente ironia, gli pareva di trovarsi fra le unghie adunche d'una belva feroce che stesse per divorarlo.
Ritornato nella sordida cella fu visitato dal medico che lo trovò coi lineamenti immobili, colla lingua e i denti fuliginosi, in una prostrazione di forze completa; rispondeva lentamente, con parole insensate. Il medico conobbe i primi sintomi d'una febbre tifoide, e ordinò che fosse subito trasportato all'infermeria. Il povero infermo [pg!89] non se ne avvide nemmeno. Gli comparvero sul volto delle macchie rosse che sparivano sotto la pressione delle dita.
Passò più d'un mese in questo stato, poi cominciò a peggiorare, e aveva perduto i sensi da qualche giorno, quando alle ripetute istanze della famiglia fu concesso di visitarlo.
I parenti partirono subito per Mantova. Il giorno dopo del loro arrivo, il capitano colla faccia sparuta, ma fiera, conduceva la moglie e la nuora, che parevano uscite da una tomba, e camminavano sostenendosi reciprocamente, attraverso gli squallidi e infetti corridoi della prigione, sotto la scorta d'un attuario e d'un secondino. Il malato non conobbe nessuno, i poveri parenti non videro che una faccia cadaverica, coperta da un sudore viscido, con un respiro affannoso, che era il solo segnale di vita che gli restava.
La Beppina cadde su quel sordido pagliericcio, perdendo i sensi, ed anche la povera madre stava per venir meno. Uscirono dalla infermeria, Maddalena sostenuta dal marito, e la Beppina trasportata da due infermieri. Adagiarono le misere donne in una carrozza che le condusse all'albergo. Chiamato subito un medico, la Maddalena fece uno sforzo sovrumano per assistere la nuora, reggendosi appena sulle gambe. [pg!90]
Beppina era incinta di quattro mesi. Quando giunse alla villa il permesso di visitare il moribondo, i genitori pronti a partire, avevano fatto una vivissima opposizione al viaggio della nuora, della quale conoscevano la condizione pericolosa, peggiorata dalla disperazione per la prigionia del marito, e dalle gravi notizie sulla sua malattia, che erano state comunicate da Mantova. Ma ogni resistenza fu vana; non valsero nè le ragioni persuasive del medico, nè i più affettuosi consigli dei suoceri, essa si irritava talmente contro chiunque volesse impedirle di rivedere il suo Stefano, che in fine parve meno pericoloso il condurla con loro che il lasciarla a casa in preda della disperazione.
Partì in uno stato di grande debolezza, con violente palpitazioni di cuore, ma si sostenne durante il viaggio a forza d'energia, la quale la resse fino alla porta dell'infermeria, ma la abbandonò totalmente all'aspetto dell'ammalato, ridotto in tale stato che era appena riconoscibile.
Coricata nel letto dell'albergo, all'arrivo del medico la misera donna aveva già abortito, e la violenta emorragia cominciava a svenarla. Non le mancarono le cure più sollecite ed affettuose, ma il medico non dissimulava la gravità del pericolo, e diceva al capitano: [pg!91]
—Caro signore, le carceri politiche hanno ucciso più donne che prigionieri. Questi resistono con vigore alle prove tremende, perchè sono animati da un altissimo sentimento che sostiene il loro coraggio, ma le madri e le spose soccombono colle viscere straziate dalla violenza che le privò dei figli e dei mariti. Nella condizione di vostra nuora colpita atrocemente nel giorno dell'arresto, quest'ultima scossa terribile fu un colpo mortale.
E pur troppo riuscirono vani tutti i tentativi fatti per salvarla.
L'anemia progrediente andò esaurendo d'ora in ora tutte le forze vitali, e alfine dovette soccombere.
L'ultima mattina la povera inferma, sentendo la morte imminente, volle baciare i suoi cari, raccomandò caldamente all'affetto della suocera la sua piccola Maria, mostrò il più vivo desiderio di ricongiungersi al suo Stefano, in una vita di oltre tomba, e rivolti al cielo gli occhi languenti spirò.
Il volto della povera morta pareva di marmo greco, il suo pallore risaltava maggiormente sulle morbide treccie di capelli che furono il suo diadema di sposa, e la sua corona di martire. Pochi giorni dopo moriva anche Stefano nel Castello [pg!92] di San Giorgio, e così sfuggiva al patibolo di Belfiore ove sarebbe perito con tanti eroi della patria.
Il vecchio carbonaro accompagnava al sepolcro i due figli morti alla distanza di pochi giorni, e li faceva collocare uno presso dell'altro, piangendo di dolore, fremendo di sdegno, e invocando dal cielo la pace ai defunti, il castigo di Dio sui despoti della terra; e la libertà alle nazioni, che hanno saputo guadagnarsela con tanti sacrifizi di vittime umane. [pg!93]
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