La famiglia Bonifazio. Caccianiga Antonio

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La famiglia Bonifazio - Caccianiga Antonio

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scherma, al tiro a segno, alla ginnastica.

      —Verrà il giorno che potrete utilizzare tutte le vostre conoscenze e tutte le vostre forze,—egli diceva loro;—impiegatele sempre a favore della giustizia e della libertà, a vantaggio dei buoni contro i malvagi,—e rivolto a sua moglie soggiungeva:—Questa è la migliore congiura che possa riescire a liberarci dal governo straniero.

      E scriveva ai parenti di Brianza i progressi dell'educazione dei figli, i loro costumi intemerati, e gli animi audaci, ma onesti. È facile immaginare come egli spiegasse la storia di Napoleone, davanti i ritratti e i quadri di casa. Erano racconti che facevano venire la pelle d'oca; ma a poco a poco lo spirito bellicoso li metteva in voglia di menar le mani, sentivano vergogna di vedersi dominati dagli stranieri, e ascoltavano a bocca aperta le geste di quei generali che rotta la spada prendevano in mano un fucile e trascinavano i soldati contro la mitraglia, mettevano in fuga il nemico colla baionetta, e restavano illesi in mezzo alla mischia.

      Gervasio, secondando il gusto dominante del [pg!54] padre si era dato con passione all'agricoltura e al giardinaggio. Coltivava dei bei fiori, ne faceva dei mazzi magnifici, e li presentava a sua madre nei giorni delle feste natalizie ed onomastiche. Piantava degli alberi nelle occasioni solenni, come modesti monumenti della vita domestica.

      Stefano amava lo studio, leggeva molto, annotando le cose che gli parevano degne d'essere rilette.

      Il maestro Zecchini li amava come figliuoli, ringiovaniva giuocando con loro; talvolta lo canzonavano per la sua teoria, ma con maniere scherzose che non potevano offenderlo.

      —Aspettate, e mi darete ragione col tempo,—egli diceva;—siete giovani senza esperienza, e giudicate le bestie dal pelo. È un errore! bisogna che la bestia sia morta per pronunziare un giudizio esatto delle sue qualità. Ci sono degli animali di tutti i colori, ma senza la pelle tutte le bestie sono eguali.

      Giacomo Pigna aveva un figlio, Giuseppe, col quale i ragazzi andavano a caccia, ora in montagna ed ora in palude, e così si esercitavano alle marcie e al tiro, con grande soddisfazione del capitano.

      Di tratto in tratto si facevano degli inviti alla villa, per mangiare cogli amici il lepre o la selvaggina. [pg!55] In quelle occasioni il vecchio Pigna alzava il gomito fuor di misura, e quando era brillo ne diceva delle grosse, che facevano ridere la brigata. Allora il maestro guardava gli amici strizzando un occhio, per dimostrare che l'occasione era favorevole all'applicazione della sua teoria.

      Questa vita semplice e laboriosa, rallegrata da festicciuole di famiglia, durò parecchi anni, senza che nessun avvenimento importante venisse a turbarla. Le aspirazioni liberali crescevano nel silenzio, lo spirito nazionale era coltivato dalle letture di buoni libri, ma lo si teneva nascosto nell'intimità, come un'arma proibita. Il bisogno d'indipendenza era penetrato anche nel popolo, e le condizioni d'Europa lo favorivano. Nel giorno memorabile 22 marzo 1848, fu scosso il giogo per la prima volta, con unanime slancio, nella Lombardia e nella Venezia.

      L'insurrezione di Milano fu irresistibile, gli Austriaci dovettero ritirarsi nelle fortezze del quadrilatero; il resto del paese fu libero per quella serie di fatti complessi che fecero cadere rapidamente il dominio austriaco, con poco spargimento di sangue.

      A Venezia pochi cittadini audaci, secondati dalla popolazione, ottennero il medesimo risultato. [pg!56] Pareva una corrente elettrica che gettasse a terra il governo sbalordito. Ma esso raccolse l'esercito e si apparecchiò alla rivincita; mentre la nazione esaltata dalla facile vittoria, priva d'esperienza e di senno politico si abbandonava alla gioia del trionfo, e non pensava ai pericoli imminenti. Sorsero dovunque i governi provvisori, incominciarono le pacifiche dimostrazioni, i proclami ampollosi, seguiti da tutte le esitazioni della inesperienza.

      Il capitano Bonifazio era soddisfatto della caduta del governo straniero, ma desolato delle declamazioni che mantenevano il paese nelle più pericolose illusioni.

      —Armi, disciplina ed unità di comando ci vogliono, egli esclamava, non vane ciarle, e mal fondate speranze. Gli Austriaci si concentrano per organizzarsi, attenderanno dei rinforzi da Vienna, e un giorno usciranno dalle fortezze, e riprenderanno il terreno perduto. Bisogna circondarli, combatterli e vincerli. Bisogna abbandonare le questioni accademiche sulla forma di governo più opportuna all'Italia, mentre il paese è ancora occupato da un esercito agguerrito di stranieri tenaci alla preda. Bisogna ripudiare la rettorica, è inutile scrivere degli indirizzi umanitari ai fratelli Ungheresi, ai fratelli Boemi, ai [pg!57] fratelli Croati, i quali non domanderebbero di meglio che tornarsene a casa in santa pace, ma che la mano ferrea dell'Austria saprà conservare sotto le armi, e slanciarli alla facile riconquista d'un popolo disarmato.

      Il maestro Zecchini che era stato pronto a metter fuori del balcone la bandiera tricolore, ascoltava attentamente i discorsi del capitano Bonifazio, li trovava molto ragionevoli, si pentiva dell'entusiasmo dimostrato nei primi giorni, ed alla prima pioggia ritirò la bandiera per non sciuparla, ma dopo tornato il sole finse di dimenticarla in un angolo della casa; avrebbe voluto anche sopprimere la coccarda, ma chi non la portava era creduto una spia, ed arrischiava la pelle. Egli prese il suo partito; si mostrava taciturno coi sospetti, modesto coi timidi, audace cogli esaltati, gridava cogli urloni, declamava coi barbassori, e abbondava nel senso di tutti per vivere d'accordo con ciascheduno.

      Il capitano Bonifazio si recò a Treviso coi figli per prendere le armi contro il nemico.

      Trovò il governo provvisorio composto di tredici persone (cattivo numero!). Mancava il denaro, quantunque ci fossero due ministri di contabilità e finanze; mancavano le armi e i soldati, ma c'erano due incaricati alla milizia e un ministro [pg!58] di diplomazia e guerra, un abate all'istruzione pubblica, un canonico al culto, un avvocato alla consulta, due ingegneri alle pubbliche costruzioni, un avvocato all'amministrazione comunale, un altro alla Polizia, e l'avvocato Presidente del governo, per mettere in moto questa gran macchina provinciale, e governare un popolo che non contava novantamila abitanti.

      E pubblicavano, dice uno storico contemporaneo, «annunzi, disposizioni, decreti, proclami, consigli a tenore delle circostanze, mostrandosi però sempre sicuri nel buon esito dell'impresa.» (Semenzi).

      La città era in festa, le case pavesate, le contrade illuminate, l'entusiasmo dei cittadini si manifestava in mille forme diverse. E così avvenne in ogni città e borgata del Lombardo-Veneto liberato dagli stranieri. Ma le aberrazioni della gioia furono brevi, sufficienti però a dimostrare all'Europa l'odio degli Italiani per il dominio straniero.

      Provenienti da varie regioni d'Italia entravano in città le più bizzarre milizie, in costumi pittoreschi: elmi romani e medioevali, pennacchi napoleonici, durlindane dell'Orlando furioso, fiocchi, galloni, giacche di tutte le parti del mondo, cappelli calabresi, romagnoli, trasteverini, napolitani e siciliani. [pg!59]

      Il capitano Bonifazio fu subito nominato istruttore e organizzatore della milizia, i suoi figli si arruolarono nei volontari, i quali ignoravano ancora il mestiere del soldato, quando furono mandati ad affrontare i primi scontri dell'esercito austriaco che scendeva dal Friuli, preceduto dei soliti Croati.

      Giovani studenti trasformati repentinamente in artiglieri, operai divenuti fantaccini in pochi giorni, resistettero intrepidamente al primo fuoco, si batterono con coraggio, e sparsero il loro sangue per la libertà.

      I Tedeschi bombardarono Treviso, che dopo la coraggiosa resistenza ottenne una delle capitolazioni più onorevoli delle guerre di indipendenza. Quei giovani soldati uscirono dalla città cogli onori militari, conservando le armi e i bagagli, con due pezzi di cannone, regalati dal generale austriaco «in contrassegno della particolare sua stima per la buona condotta durante il combattimento, e perizia nel maneggio delle armi.» (Capitolo III della Capitolazione). «I sudditi austriaci arruolati nelle truppe italiane,

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