Novelle umoristiche. Albertazzi Adolfo
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Читать онлайн книгу Novelle umoristiche - Albertazzi Adolfo страница 10
— Ci penso spesso, all'ufficio. E lei? (Non osava dire «signorina».)
La ragazza era arrossita sino alla gola ridendo commossa, eccitata dal suo stesso pensiero che le occhiate patetiche e fuggevoli del giovane, nei dì addietro, non dissimulassero un inganno; e, poverina, per trarsi d'impaccio e giustificare quel riso disse una stupidaggine:
— Se ci penso.... all'ufficio?
Parve una canzonatura; per cui Terpalli, un po' permaloso, aveva scosse le spalle e tenuto il broncio quasi una settimana. Dopo, si pacificarono con nuove occhiate; e poi la dimanda alla madre, e l'assenso.
Ed era una consolazione a vederli, quei ragazzi; così di rado la fortuna aiuta con indulgenza e prontezza due cuori a intendersi e ad appagarsi pienamente l'uno dell'altro. Che se l'amore buono è interpretazione, chiaroveggenza reciproca, presentimento e consentimento, è telepatia, l'amore della Gigia e di Gustavo Terpalli era un perfetto amore. Pensava l'uno durante le ore d'ufficio:
«Cosa farà adesso?... Adesso ripulisce i miei panni; aiuta la mamma a spolverare». Oppure: «Cuce per il corredo; discorre con la sarta». Oppure: «Attende al desinare.... Batte il prezzemolo.... Ohi ohi!: affacciatasi per caso, un momento, alla finestra, un giovanotto la guarda...; e lei, via!; scappa. È un angelo!»
E l'altra pensava:
«Cosa farà?... Mette lettere a protocollo; registra un atto; esaurisce una pratica; sbriga un importuno.... Oh Dio! Scrive per il conte, di nascosto, tanta ha voglia di spicciarsi stasera.... Ma se lo sorprende il capufficio?... Ecco, ecco: lo sorprende, lo sgrida!...» — E accadde che un giorno Gustavo si sforzasse a contener l'ira a cui l'aveva acceso il capufficio, perchè la Gigia lo quetasse e l'esortasse a non infrangere mai più, per amor suo, alcuna regola; ed accadde che con la mite cattiveria delle ragazze ingenue e buone la Gigia un giorno raccontasse a Gustavo:
— Oggi, sai, mi sono affacciata un momento alla finestra, e passava un bel giovinotto.... — Per gioco si bisticciavano, talora, quei figlioli: e la mamma li lasciava fare guatandoli felice.
Non mancavano tuttavia i gravi pensieri; le spese per allestire la nuova casa. A provvederla di solo quanto era necessario, e non superfluo, non sarebbero bastati a Terpalli i risparmi di due anni, se la mamma non gli fosse venuta in soccorso con tutto il suo avere; e per le cose superflue — di assoluta necessità, una volta provviste le altre — lasciarono l'incarico al caso nella consuetudine dei doni nuziali. Uno specchio per il salotto; una lampada da appendere, o due candelabri; uno o due vasi giapponesi, di quelli in cui si gettano, sparsi, fiori e penne; un bell'«album» da ritratti e un cofano, alla moda, per i biglietti, eran tutte cose che premevano. Seguivano, soltanto desiderabili, sei posate in luogo di quelle comuni ereditate dalla mamma; e forse d'un «servizio da caffè» non avrebbero potuto fare a meno neppure se Gustavo non si fosse imbattuto in quell'ipocrita dello zio Tarabusi.
II.
Questi, subito, quasi avesse fretta di levarsi un peso d'addosso, mandò un «servizio» di sei tazze, poh! abbastanza fine: Ginori di seconda qualità.
— Di terza, di terza! — mormorò la mamma, meno paga e sempre astiosa con l'ipocrita e avaro donatore. Ma — A caval donato.... — aggiungeva per suo stesso conforto.
Quanto agli altri regali desiderati e attesi: nessuno; e quale rabbia allorchè una prozia e una cugina, su la cui intelligenza s'era fatto assegnamento, inviarono la prima un ombrello di raso paonazzo e la seconda un astuccio per guanti! Stupide! La Gigia era forse una donna più da passeggio che da casa? Chi regalerebbe ora il cofano, i candelabri o il lume, lo specchio e l'album? Forse la zia paterna, ch'era ricca assai, manderebbe alla sposa le posate? Forse lo zio paterno manderebbe i vasi giapponesi?
.... — Vostro zio? — domandava Terpalli ogni volta che rincasava, facendo quattro gradini alla volta.
Sì! Lo zio materno — a loro che avevano rinunciato al viaggio di nozze — regalò.... una borsa da viaggio!
.... — La zia?
Un monile bello, assai bello, regalò la zia; ma la Gigia avrebbe preferita qualche cosa di più utile sebbene di minor prezzo; avrebbe preferito restar disadorna lei a lasciar il salotto disadorno, nudo.
Nè le amiche poterono far molto: un libro da messa; una scatola di profumi; cinque metri di pizzo; un cuscino da sofà; un portafogli ricamato all'antica....
Quand'ecco, alla vigilia del gran giorno, la mamma su la scala venne incontro a Terpalli più che desolata, irosa e sbuffante. Una combinazione incredibile! La signora Tecla, antica loro conoscente, memore d'aver visto nascere la Gigia, aveva pensato a un regaluccio: e aveva pensato proprio a.... un «servizio da caffè»! A guardare la faccia della mamma mentre diceva: — Eh! che ne dite? —, Gustavo credè leggervi come un'accusa di complicità sua col caso; e provò tal pena a veder lagrimosa la Gigia mentre essa diceva: — Si può essere più disgraziati? — che si sforzò a ridere, da uomo di spirito.
— Faremo così: quello di mio zio — disse — l'useremo per romperlo; e quello della signora Tecla lo metteremo nel salotto per conservarlo.
— Già: sulla tavola, con l'ombrello aperto! e, sotto, la borsa, il libro da messa, la scatola di profumi e il cuscino! Che bel salotto! — esclamò la Gigia.
Propose Gustavo:
— Perchè non avvertire la signora Tecla? Potrebbe ottenere qualche cosa in cambio, dal negoziante.
— Oh io non m'attento! — borbottò la mamma.
E la figliola:
— Nemmeno io!
— Dunque si tiene il secondo «servizio» e si ringrazia! — disse Terpalli, al quale rincrebbero il broncio della vecchia e l'ironia della sposa.
— Lo butterei dalla finestra! — esclamò la Gigia, alla quale per contro rincresceva l'indifferenza ostentata dallo sposo.
— Ma la colpa è vostra! — esclamò la mamma, che il riso del genero aveva inviperita.
— Che colpa?
La vecchia tacque; poi sospirò e borbottò:
— E siete senza parenti; non avete che quell'avaro gesuita!
— Colpa mia? — Gustavo dimandava. — Colpa mia? — ripeteva.
Presentendo il litigio, la ragazza pregò:
— Zitti! basta!
— Se non ho parenti, ho degli amici — asserì lo sposo. — Ho i colleghi!
Allora la signora Clotilde si mise a ridere lei.
— I colleghi? Un mazzo di fiori e tanti saluti! Un bouquet, come daranno i vostri testimoni; e ciao!
— E il conte? Perchè è in viaggio credete si dimentichi?... Mi vuol bene, lui!
Terpalli l'aveva ricordato per il colpo