Novelle umoristiche. Albertazzi Adolfo

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Novelle umoristiche - Albertazzi Adolfo

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degli amici!

      — Ohibò!...

      — Si regalano alle signore che non si maritano, i ventagli!

      — Dunque?

      Parlava il giovine:

      — Scusino.... Vogliono fare un dono cumulativo?

      — Cioè?

      Ah, l'aveva avuta lui l'idea buona!

      — Dodici posate d'argento Christofle...?

      — Troppo, troppo!

      — Sei, allora....

      — Poco: troppo poco!

      — Poi le avranno già le posate! — Sandri ripeteva.

      Proseguiva il commesso:

      — Oggetti di toilette? Candelabri?...

      — Un lume! — esclamò Bonariva alla fine, contento. Se non che Guizzi si mise a ridere.

      — Un lume! Gli amici che mandano il lume! — E al commesso che proponeva: — Un orologio? una sveglia? —, rispose: — Da sveglia farà la sposa: non dubiti!

      Così fu eccitato il riso anche in Bonariva, che quando cominciava non la smetteva più. Disse Bonariva:

      — Prendiamo un organetto, o un'armonica per calmare la signora dopo la luna di miele!

      A che Guizzi:

      — Sarebbe meglio un revolver!

      Ma Sandri, avendo moglie, ammonì con un'occhiata i colleghi ad essere seri. Anche, li rimproverò:

      — Se aveste dato retta a me e avessimo chiesto allo sposo che cosa gradirebbe....

      Perchè non sapevano proprio che cosa scegliere.

       Indice

      Impazienza, ira e litigi promuovono le piccole sventure; non le grandi, le quali abbattono quanti ne sono colpiti in un pietoso filantropico accordo.

      — Che volete farci? — mormorava la signora Clotilde dinanzi al terzo «servizio da caffè» e alla muta desolazione dei fidanzati. — Buon viso a cattiva fortuna, figlioli!

      Disse finalmente Gustavo:

      — Dimani bisognerà ridere; ingoiare la rabbia; fingere che niente sia; se no, ci metteranno su le ventole!

      — Sarà bene avvertirli prima, gl'invitati, perchè si meraviglino meno — disse la Gigia, finalmente.

      Non era possibile, infatti, nascondere i due primi servizi, il donatore e la donatrice essendo invitati alla colazione; e non volendosi sottrarre il terzo, quello dei colleghi, che appariva, al confronto, magnifico. Per suprema ironia era magnifico!

      Nè il domani mattina alla funzione nuziale, in chiesa prima e dopo al municipio, fu alcuno che al vedere la sposa un po' turbata, un po' troppo smorta, non ne ammirasse la commozione del solenne ufficio che si compieva, il verginale panico per il solenne sacrificio a cui era condotta, il trepido cuore per l'amore che la beava: nessuno ci fu che pensasse a un estraneo disturbo di tanta felicità. La poverina aveva, insistente, la visione d'un collegio di chicchere vigilate da matrone, che erano le caffettiere e le zuccheriere. Quanto allo sposo, avanti di arrivare a casa, rivelò a un testimonio una sola causa di cruccio: l'ingratitudine del conte.

      — Nemmeno un biglietto! E son dieci anni che lavoro per lui senza aumento di stipendio!

      — Pensate — aggiungeva — che ogni volta che capitava in ufficio era sempre lì a dirmi: «Terpallino.... Gustavino....: quando la facciamo la corbelleria?»

      — Dov'è adesso? — chiese uno.

      — A Firenze col maestro di casa, che mi promise di rinfrescargli la memoria.... Ma sì!...

      Esclamò uno dei testimoni, che era socialista: — Tutti uguali i nobili! — L'altro, moderato, tacque.

      Avanti d'entrare in casa, Terpalli s'arrestò dicendo:

      — Ora vedrete i tre «servizi»!

      Tanta serenità e disinvoltura indussero tutti a ridere: anche la sposa e la mamma; anche gli invitati che attendevano, e quelli che sopraggiunsero; toltane, s'intende, la vecchia amica signora Tecla, a cui il suo servizio sembrava il più brutto dei tre, e s'arrovellava a valutare gli altri due.

      — Che caso! — Oh che caso!

      — Sono casi però che fanno rabbia — disse lo zio materno.

      — Son brutti scherzi del destino! — esclamò un secondo. — Una cosa che non si crederebbe! — borbottava un terzo; di guisa che l'ilarità diveniva compianto sincero nell'attesa della colazione.

      — A tavola! a tavola! — chiamò la mamma.

      — Chi manca?

      Mancava lo zio di Gustavo. Ma lindo, nitido, sorridente, senza peli, con una impressione di maschera benevola su la faccia tonda, eccolo, lo zio Tarabusi.

      — Fortunato!... felice!... Stieno comodi — rispondeva alle presentazioni, dopo aver baciata su la fronte la sposa, la «cara figliola» — Oh caro: oh! carissimo! — diceva a quelli che conosceva. — Tanto, tanto piacere! — ripeteva alle nuove conoscenze.... Finchè diede una sbirciatina alla tavola dei regali. — To'! quante chicchere! Pare un reggimento di fanteria....

      — Eh, zio: che ne dice? — Raccontavano la storia.

      — Oh bella! bellissima!... Ma se io avessi potuto prevedere.... Oh senti — aggiunse con quella sua bocca melliflua, traendo a sè lo sposo. Quindi a bassa voce: — Sai? debbo partire...: alle dieci e trenta per Modena....

      — Come?

      Più piano:

      — Eh!... Bella figura m'hai fatta fare!...

      — Ma..., zio....

      — Dovevi avvertirmi...; tuo dovere.... I confronti sono odiosi.

      — Creda....

      — Dovevi avvertirmi!

      Ogni preghiera fu inutile. Tornò mellifluo tra gli altri.

      — Dicevo qui, a Gustavo, che non posso trattenermi.... Mi scusino.... Debbo partire.... per Modena: alle dieci e trenta. Mi scuseranno tutti questi signori....

      — Rimanga, zio!

      — Resti, signor Tarabusi!

      —

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