Dopo il divorzio. Grazia Deledda

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Dopo il divorzio - Grazia Deledda

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Io non vado via! — protestò zia Porredda. — Un corno! Sono in casa mia, io! Alzati, figlia del diavolo, finiscila, che ti fa male! Aspetta a domani a strapparti i capelli, chè tuo marito non è ancora ai lavori forzati.

      Giovanna riabbassò la fronte, e riprese a piangere un pianto calmo, accorato, che spezzava il cuore.

      — Costantino mio, Costantino mio, — diceva con nenia, come cantano le prefiche davanti ad un morto, — tu sei morto per me, io non ti riavrò mai più, mai più. Quei cani rabbiosi ti hanno preso e legato, e non ti lasceranno più andar via. E la nostra casa resterà deserta, e il letto sarà freddo, e la famiglia andrà dispersa. Bene mio, agnello mio, tu sei morto per il mondo, così siano morti coloro che ti hanno legato!

      Davanti al dolore di Giovanna zia Porredda si commosse, ma non sapendo più che fare, uscì sulla loggia e chiamò:

      — Bachisia Era, vieni su, chè tua figlia sta diventando matta!

      S'udì un passo per la scaletta esterna; zia Porredda rientrò e dietro di lei venne una donna alta, tragica, vestita di nero, col capo avvolto in una benda nera, nel cui cerchio spiccava un viso giallo d'uccello rapace, con due punti verdi brillanti per occhi, infossati e circondati da sopracciglia nere selvaggie e da cerchi lividi.

       La sua sola presenza parve dare una calma rigida alla figliuola.

      — Alzati! — disse una voce rauca.

      Giovanna si alzò: era alta, grossa eppure svelta, con dei fianchi stupendi. Le sottane di orbace con una fascia di porpora intorno ai fianchi, orlate di panno verde, cortissime, lasciavano vedere i piedi piccoli, calzati da stivalini elastici, e il principio di due gambe modellate.

      — Perchè dài tanto fastidio a questa brava gente? — chiese la madre. — Finiscila un po', scendi giù a cena e non spaventare le ragazze e non turbare la gioia di questa brava gente.

      La gioia di quella brava gente consisteva nel ritorno, per le vacanze, del figlio studente in legge, arrivato quella sera.

      Giovanna parve capire e si calmò: si tolse dal capo il fazzoletto di lana, scoprendo una cuffia di vecchio broccato dalla quale scaturivano ondate di capelli nerissimi, e andò a lavarsi in un catino d'acqua deposto sopra una sedia. Zia Porredda guardò zia Bachisia, si strinse le labbra fra l'indice e il pollice della mano destra, accennando di far silenzio, e andò via senza far rumore.

      L'amica obbedì; non disse parola, attese che Giovanna si fosse lavata e rimessa, poi entrambe scesero silenziose la scaletta esterna. S'era fatto notte, una notte calma, calda, profonda: alla piccola prima stella gialla erano seguite migliaia di astri argentei: la via lattea passava come un gran velo trapuntato di scintille, e un profumo aspro di fieno secco gravava nell'aria.

       Nel cortile i grilli cantavano nascosti nel pergolato, e il cavallo ruminava sbattendo la sua zampa ferrata. In lontananza udivasi un canto melanconico.

      La porta della cucina e quella d'una camera terrena, che per l'occasione serviva anche da stanza per pranzare, davano sul cortile ed erano spalancate. In cucina, accanto al focolare acceso, si vedeva zia Porredda intenta a condire dei maccheroni; e una bambina vestita con un signorile abitino nero, bionda, scarmigliata, scalza, che litigava con un bimbo vestito in costume, molto grasso e rosso come la nonna.

      La bimba imprecava maledettamente, nominando tutti i diavoli; il bimbo cercava pizzicarla alle gambe.

      — Finitela, — diceva zia Porredda. — Ah, ah, volete finirla, figli cattivi?

      — Mamma Porru, questa ragazzina impreca, mi dice: al diavolo chi ti ha fatto nascere.

      — Ah, ah, Minnìa, tu andrai all'inferno viva e sana, — rispose la nonna, senza voltarsi, rimescolando i maccheroni.

      — Egli mi pizzica, mamma Porru, ahi, ahi, come mi pizzica!... Che tu sii scorticato, immondezza, se ti afferro ti dò tanti schiaffi quanti capelli hai sul capo...

      — Minnìa, che parlare è questo?...

      — Egli mi ha rubato il portamonete, quello che ci ha il papa dipinto, quello che mi ha portato zio Paolo...

      — Non è vero, no! Non mi far parlare, Minnìa, — gridò il bambino minaccioso, — in quanto a rubare...

       La bimba tacque come per incanto; ma dopo un po' il bimbo prese un bastone e col manico ricurvo cominciò ad afferrarle una gamba, e Minnìa si mise a piangere; la nonna si voltò col mestolo in mano.

      — In verità, io vi batto col mestolo, cattivi figliuoli. Aspettate, aspettate. — Li rincorse, ed essi scapparono nel cortile, andando ad urtare contro Giovanna e la madre.

      — Che c'è, che c'è?...

      — Ah, mi fanno disperare, essi sono indiavolati!... — disse zia Porredda dalla porta di cucina.

      In quel punto una figurina nera si staccò dal portone socchiuso e disse con voce commossa:

      — Essi tornano, nonna, eccoli qui.

      — E lasciali tornare. Faresti bene, Grazia, a dar attenzione ai tuoi fratelli, che si azzuffano fra loro come pulcini.

      Grazia non rispose, ma poco dopo prese dalle mani di zia Bachisia il lume di ferro, lo spense e andò a nasconderlo dietro la panca di cucina, dicendo a bassa voce:

      — Dovreste vergognarvi di queste candele, nonna, ora che c'è zio Paolo.

      — Ma che zio Paolo; credi che egli sia stato allevato nell'oro?

      — Egli viene da Roma...

      — Un corno! A Roma lumi come questi non ce ne sono, perchè l'olio lo comprano a soldi, mentre noi ne abbiamo delle olle colme.

      — State fresca voi se credete ciò, — disse la ragazza, e saltò nel cortile palpitando nell'udire la voce del nonno e dello zio.

      — Giovanna, salute, zia Bachisia come state? — diceva la voce calda dello studente. — Io bene, grazie al Signore! Oh, mi dispiace tanto la vostra disgrazia: coraggio, chissà? è domani la sentenza?

      Entrò nella stanza ov'era apparecchiata la tavola, seguìto dalle donne e dai bambini che la sua presenza intimoriva e divertiva nello stesso tempo.

      Egli era piccolo e zoppicava alquanto, perchè aveva un piede più piccolo e una gamba un po' più corta dell'altra. Perciò lo chiamavano dottor Pededdu (piedino), ed egli non se n'aveva a male, perchè, diceva, val meglio avere un piede più piccolo dell'altro che avere la testa più piccola di quella degli altri.

      Il suo visino roseo e tondo con due piccoli baffi biondastri, sorrideva sotto un gran cappello nero a cencio. Egli dicevasi socialista.

      Entrato nella stanza si mise a sedere sul letto, a gambe sospese, e attirò accanto a sè, uno per parte, il nipote e la nipotina che lo guardavano a bocca aperta, stringendoli a sè, senza badarvi, dando attenzione al racconto doloroso che gli faceva zia Bachisia. Però di tanto in tanto osservava Grazia, la cui figurina tredicenne alta e angolosa, in formazione, veniva viepiù deformata da un vestitino nero troppo stretto. Gli occhi di lei, chiari e metallici, fissavano ostinatamente, avidamente lo zio.

      — Ecco, — diceva zia Bachisia con la sua voce rauca, —

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