Le vergini delle rocce. Gabriele D'Annunzio

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Le vergini delle rocce - Gabriele D'Annunzio

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bellezza di Autolico, quasi riconoscendo una presenza sovrumana. Con sottil gusto discorre, in séguito, dei profumi e della danza e del bere non senza ornare il discorso d'imagini vivide, come un saggio e come un poeta. Gareggiando quivi di venustà con Critobulo per gioco, esce in queste parole carnali: “Poichè ho le labbra tumide non credi tu che io abbia anche il bacio più molle del tuo?„ Al Siracusano, che dà quivi spettacoli con una sua auleda e con una danzatrice mirifica e con un fanciullo ceteratore, consiglia di non più costringere quei tre giovini corpi a sforzi crudi e a prodigi perigliosi i quali non dànno piacere, ma di lasciare che la lor puerile freschezza secondando il suono del flauto prenda le attitudini proprie delle Grazie, delle Ore e delle Ninfe nelle insigni pitture. Così al disordine che stupisce egli oppone l'ordine che diletta, rivelandosi anche una volta cultore di musica e maestro di stile.

      Ma il suo ultimo gesto verso una cosa bella vivente amata e frale fu ben quel che più a dentro mi commosse nel tempo lontano e ancor mi commuove; perocché la mia anima talvolta ami allentare la sua tensione nelle malinconie voluttuose e nelle appassionate perplessità che può produrre in una vita ornata di nobili eleganze il sentimento del continuo trasmutare, del continuo trapassare, del continuo perire.

      Nel dialogo dell'ultima sera non tanto mi conturba quel punto in cui Critone per incarico di chi deve propinar la cicuta interrompe il discorso del morituro ammonendolo di non riscaldarsi se vuol che il veleno abbia rapida efficacia e l'impavido ne sorride e va innanzi nell'indagine; né tanto mi è dolce quella musicale similitudine dei cigni indovini e del lor canoro giubilo; né tanto mi stupiscono i momenti estremi in cui l'uomo compie con brevi atti e con brevi detti la sua perfezione sì lucidamente e, come quell'artefice il quale abbia dato alla sua opera l'ultimo tocco, contento riguarda alfine la sua propria imagine — miracolo di stile — che rimarrà immortale in terra; quanto mi rapisce l'impreveduta pausa che segue i dubbii opposti da Cebete e da Simmia alla certezza manifestata dal maestro eloquente.

      Profonda pausa fu quella, in cui tutte le anime a un tratto cieche si profondarono come in un abisso, spentosi a un tratto il raggio di foco appuntato verso il Mistero da colui che stava per entrarvi.

      Indovinò il maestro la tristezza di quell'oscurazione subitanea ne' suoi fedeli; e le ali della sua idea per poco si ripiegarono. La realità gli si ripresentò nei sensi e lo ritenne anche per poco nel campo del finito e del percettibile. Egli sentì il tempo scorrere, la vita fluire. Forse i suoi orecchi raccolsero qualche romore della città magnifica, le sue nari aspirarono forse il profumo della nuova estate sopravveniente, come i suoi occhi si posarono sul bel Fedone chiomato.

      Poiché era seduto sul letto e accanto a lui sopra uno sgabello basso era Fedone, pose egli la mano sul capo del discepolo e gli accarezzò e gli premette i capelli sul collo, avendo già consuetudine di scherzare così con le dita in quella ricca selva giovenile. Non parlava ancora, tanto la sua commozione doveva essere intensa e rigata di delizia. Per mezzo di quella cosa bella vivente e caduca egli comunicava anche una volta con la vita terrena in cui aveva compiuto la sua perfezione, in cui aveva effettuato il suo ideale di virtù; e sentiva forse che nulla eravi oltre, che la sua esistenza finita bastava a sè stessa, che il prolungamento nell'eterno non era se non una parvenza — simile all'alone di un astro — prodotta dallo splendore straordinario della sua umanità. Non mai la capellatura del giovinetto d'Elide aveva avuto per lui un pregio tanto sublime. Egli ne godeva per l'ultima volta, dovendo morire; e anche sapeva che al dimane in segno di lutto sarebbe stata recisa. Disse alfine — e i suoi discepoli non gli avevano mai conosciuto nella voce un tal suono — disse: “Domani, o Fedone, tu te le taglierai queste belle chiome.„ E il chiomato: “Sembra, o Socrate.„

      Questo sentimento — che súbito assunsi ed esaltai in me medesimo leggendo per la prima volta l'episodio nel dialogo platonico — mi divenne in séguito per via di analogie tanto complesso, e tanto l'ebbi familiare, ch'io ne feci il tema aperto o dissimulato delle musiche alle quali volli attendere.

      Così l'Antico m'insegnò la commemorazione della morte in un modo consentaneo alla mia natura, affinchè io trovassi un pregio più raro e un significato più grave nelle cose a me prossime. E m'insegnò a ricercare e discoprire nella mia natura le virtù sincere come i sinceri difetti per disporre le une e gli altri secondo un disegno premeditato, per dare a questi con pazienti cure un'apparenza decorosa, per sollevar quelle verso la perfezione somma. E m'insegnò ad escludere tutto ciò che fosse difforme alla mia idea regolatrice, tutto ciò che potesse alterare le linee della mia imagine, rallentare o interrompere lo sviluppo ritmico del mio pensiero. E m'insegnò a riconoscere con sicuro intuito quelle anime su cui esercitare il beneficio e il predominio o da cui ottenere una qualche straordinaria rivelazione. E anche mi comunicò in fine la sua fede nel demònico; il quale non era se non la potenza misteriosamente significativa dello Stile non violabile da alcuno e neppur da lui medesimo nella sua persona mai.

      Pieno di tale ammaestramento e solitario, io mi posi all'opera con la speranza di riuscire a determinar per un contorno preciso e forte quella effigie di me alla cui attualità avevan concorso tante cause remote, operanti da tempo immemorabile a traverso un'infinita serie di generazioni. La virtù di stirpe, quella che nella patria di Socrate nomavasi eugenéia, mi si rivelava più gagliardamente come più fiero diveniva il rigore della mia disciplina; e mi cresceva l'orgoglio insieme con la contentezza, poiché pensavo che troppe altre anime sotto la prova di quel fuoco avrebbero rivelato o prima o poi la loro essenza volgare. Ma talvolta dalle radici stesse della mia sostanza — là dove dorme l'anima indistruttibile degli avi — sorgevano all'improvviso getti di energia così veementi e diritti ch'io pur mi rattristavo riconoscendo la loro inutilità in un'epoca in cui la vita publica non è se non uno spettacolo miserabile di bassezza e di disonore. “Certo, è meraviglioso„ mi diceva il demònico “che queste antiche forze barbare si sieno conservate in te con tanta freschezza. Esse sono ancor belle, se bene importune. In un altro tempo ti varrebbero a riprendere quell'officio che si conviene ai tuoi pari; ciò è l'officio di colui che indica una mèta certa e guida i seguaci a quella. Poiché un tal giorno sembra lontano, tu cerca per ora, condensandole, di trasformarle in viva poesia.„

      Assai lontano, in verità, appariva il giorno; poichè l'arroganza delle plebi non era tanto grande quanto la viltà di coloro che la tolleravano o la secondavano. Vivendo in Roma, io era testimonio delle più ignominiose violazioni e dei più osceni connubii che mai abbiano disonorato un luogo sacro. Come nel chiuso d'una foresta infame, i malfattori si adunavano entro la cerchia fatale della città divina dove pareva non potesse novellamente levarsi tra gli smisurati fantasmi d'imperio se non una qualche magnifica dominazione armata d'un pensiero più fulgido di tutte le memorie. Come un rigurgito di cloache l'onda delle basse cupidige invadeva le piazze e i trivii, sempre più putrida e più gonfia, senza che mai l'attraversasse la fiamma di un'ambizione perversa ma titanica, senza che mai vi scoppiasse almeno il lampo d'un bel delitto. La cupola solitaria nella sua lontananza transtiberina, abitata da un'anima senile ma ferma nella consapevolezza de' suoi scopi, era pur sempre il massimo segno, contrapposta a un'altra dimora inutilmente eccelsa dove un re di stirpe guerriera dava esempio mirabile di pazienza adempiendo l'officio umile e stucchevole assegnatogli per decreto fatto dalla plebe.

      Una sera di settembre, su quell'acropoli quirina custodita dai Tindaridi gemelli, mentre una folla compatta commemorava con urli bestiali una conquista di cui non conosceva l'immensità spaventosa (Roma era terribile come un cratere, sotto una muta conflagrazione di nubi), io pensai: “Qual sogno potrebbero esaltare nel gran cuore d'un Re questi incendii del cielo latino! Tale che sotto il suo peso i cavalli giganteschi di Prassitele si piegherebbero come festuche.... Ah chi saprà mai abbracciare e fecondare la Madre col suo pensiero oltrapossente? A lei sola — al suo grembo di sasso che fu nei secoli l'origliere della Morte — a lei sola è dato generar tanta vita che se ne impregni il mondo un'altra volta.„

      E io vedevo, nella mia imaginazione, dietro le vetrate fiammeggianti del balcone regale, una fronte pallida e contratta su cui, come su quella del Còrso, era inciso il segno d'un destino sovrumano.

      Ma che valeva quel torbido

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