Le vergini delle rocce. Gabriele D'Annunzio

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Le vergini delle rocce - Gabriele D'Annunzio

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delle arti di dominio professate dai loro avi, anche chiedevano: “Qual può essere oggi il nostro officio? Dobbiamo noi ingannare il tempo e noi stessi cercando di alimentare tra le memorie appassite qualche gracile speranza, sotto le volte istoriate di sanguigna mitologia, troppo ampie pel nostro diminuito respiro? O dobbiamo noi riconoscere il gran dogma dell'Ottantanove, aprire i portici dei nostri cortili all'aura popolare, coronar di lumi i nostri balconi di travertino nelle feste dello Stato, diventar soci dei banchieri ebrei, esercitar la nostra piccola parte di sovranità riempiendo la scheda del voto coi nomi dei nostri mezzani, dei nostri sarti, dei nostri cappellai, dei nostri calzolai, dei nostri usurai e dei nostri avvocati?„

      Qualcuno tra loro — mal disposto alle rinunzie pacifiche, ai tedii eleganti e alle sterili ironie — rispondeva: “Disciplinate voi stessi come i vostri cavalli da corsa, aspettando l'evento. Apprendete il metodo per affermare e afforzare la vostra persona come avete appreso quello per vincere nell'ippòdromo. Costringete con la vostra volontà alla linea retta e allo scopo fermo tutte le vostre energie, e pur le vostre passioni più tumultuose e i vostri vizii più torbidi. Siate convinti che l'essenza della persona supera in valore tutti gli attributi accessorii e che la sovranità interiore è il principal segno dell'aristòcrate. Non credete se non nella forza temprata dalla lunga disciplina. La forza è la prima legge della natura, indistruttibile, inabolibile. La disciplina è la superior virtù dell'uomo libero. Il mondo non può essere constituito se non su la forza, tanto nei secoli di civiltà quanto nelle epoche di barbarie. Se fossero distrutte da un altro diluvio deucalionico tutte le razze terrestri e sorgessero nuove generazioni dalle pietre, come nell'antica favola, gli uomini si batterebbero tra loro appena espressi dalla Terra generatrice, finchè uno, il più valido, non riuscisse ad imperar su gli altri. Aspettate dunque e preparate l'evento. Per fortuna lo Stato eretto su le basi del suffragio popolare e dell'uguaglianza, cementato dalla paura, non è soltanto una costruzione ignobile ma è anche precaria. Lo Stato non deve essere se non un instituto perfettamente adatto a favorire la graduale elevazione d'una classe privilegiata verso un'ideal forma di esistenza. Su l'uguaglianza economica e politica, a cui aspira la democrazia, voi andrete dunque formando una oligarchia nuova, un nuovo reame della forza; e riuscirete in pochi, o prima o poi, a riprendere le redini per domar le moltitudini a vostro profitto. Non vi sarà troppo difficile, in vero, ricondurre il gregge all'obedienza. Le plebi restano sempre schiave, avendo un nativo bisogno di tendere i polsi ai vincoli. Esse non avranno dentro di loro giammai, fino al termine dei secoli, il sentimento della libertà. Non vi lasciate ingannare dalle loro vociferazioni e dalle loro contorsioni sconce; ma ricordatevi sempre che l'anima della Folla è in balia del Pánico. Vi converrà dunque, all'occasione, provvedere fruste sibilanti, assumere un aspetto imperioso, ingegnar qualche allegro stratagemma. Il polítropo Ulisse, quando trascorreva il campo per ridurre tutti nel fòro, se imbattevasi in qualche plebeo vociferante lo castigava con lo scettro, taci, garrendo, taci, tu codardo, tu imbelle e nei consigli nullo. Il nobile demagogo Alcibiade, perito quant'altri mai nel governo della Gran Bestia, così dava principio a una sua concione per l'impresa di Sicilia: — A me, più che ad altri, si aspetta, o Ateniesi, il comando; e del comando io mi stimo degno. — Ma nessuno ammaestramento, in verità, è più profondo e più per voi opportuno di quello offertovi da Erodoto sul principio del libro di Melpomene. Eccolo. — Gli Sciti, rimasti ventott'anni lungi dalla patria per aver tenuto l'imperio dell'Asia superiore, dopo sì lungo intervallo volendo ad essa ritornare, incontrarono un non minor travaglio di quello che avevan durato nella guerra medica. Un grande esercito ostile lor precludeva l'accesso. E tanto avveniva perchè le donne scitiche, prive per lungo tempo dei loro uomini, ai servi s'erano abbandonate. E dai servi e dalle donne era sorta una generazione di giovani; i quali, consapevoli della propria origine, s'eran messi contro a coloro che tornavan dalla Media e primieramente, ad impedire il passo, avevano praticato uno scavo e dai monti taurici prolungatolo fino alla Palude Meotide, che molto è vasta. Seguitarono poi a respingere con valide opere di difesa il tentato assalto degli Sciti; e come questi ultimi dopo varii conflitti vedevano di non potere in alcun modo avanzar con le armi, un d'essi appunto così prese a dire: O Sciti, a che mai stiamo qui travagliando? Nel combattere coi nostri servi noi ci assottigliamo per le continue morti, e se noi li uccidiamo non facciam altro che scemare il numero dei nostri futuri soggetti. Onde io penso che ci convenga smettere e le aste e i dardi e che ognuno di noi debba imbrandir soltanto lo scudiscio del suo cavallo e in tal modo affrontar quella gente. Perchè sino ad ora avendoci veduto procedere in armi, essi al certo credettero di essere nostri eguali e figli di eguali; ma, come avranno veduto che in vece d'armi noi maneggiamo lo scudiscio, súbito sentiranno d'esser nostri servi; e, ben persuasi del loro stato, non sapranno più resisterci. Il qual discorso avendo udito gli Sciti, eseguirono il consiglio. E gli avversarii, fieramente percossi dal nuovo fatto, cessarono dal combattere e si diedero alla fuga. Questo pertanto è il modo onde gli Sciti riebbero la patria. — O dominatori senza dominio, meditatelo!„

      Forse nella mia solitudine laboriosa — se bene io non temessi nè l'infermità nè la demenza nè la morte possedendo questa tutelare fiamma di orgoglio di pensiero e di fede — forse talvolta la mia malinconia celava in sè un verace bisogno di comunioni con il fraterno spirito non incontrato ancóra o con un'adunanza di spiriti predisposti ad appassionarsi sinceramente di ciò che mi appassionava. Un tal bisogno parevami si rivelasse nel mio abito mentale di fermare le teorie delle idee e delle imagini in una concreta forma oratoria o lirica, quasi a riguardo d'un imaginario uditore. Caldi getti d'eloquenza e di poesia m'inondavano all'improvviso, cosicchè all'anima traboccante il silenzio talvolta era grave.

      Per confortare la mia solitudine, allora pensai di dare una figura corporea a quel demònico in cui, secondo il documento del mio primo maestro, io aveva fede come nell'infallibile segno che mi conduceva all'integrazione della mia effigie morale. Io pensai di commettere a una bocca bella e imperiosa e colorita dal mio medesimo sangue l'officio di ripetermi: — O tu, sii quale devi essere.

      Tra le imagini dei miei maggiori una m'è sopra tutte le altre carissima, e sacra come una icona votiva. È il più nobile e il più vivido fiore di mia stirpe, rappresentato dal pennello di un artefice divino. È il ritratto di Alessandro Cantelmo conte di Volturara, dipinto dal Vinci tra l'anno 1493 e il '94 a Milano dove Alessandro aveva preso stanza con una sua compagnia di gente d'arme, attratto dall'inaudita magnificenza di quello Sforza che voleva fare della città lombarda una nuova Atene.

      Nessuna cosa al mondo ha per me un egual pregio, e nessun tesoro mai fu custodito con più appassionata gelosia. Io non mi stanco di ringraziar la Fortuna che ha voluto far risplendere su la mia vita una tanto insigne imagine e concedermi la voluttà incomparabile di un tanto segreto. “Se tu possiedi una cosa bella, ricòrdati che ogni sguardo altrui usurpa il tuo possesso. Il godimento della contemplazione parteggiato è menomato: e tu rifiùtalo. Qualcuno, per non confondere il suo sguardo con quello dello sconosciuto, non entrò nel museo publico. Ora, se tu veramente possiedi una cosa bella, chiudila con sette porte e coprila con sette velarii.„ E un velario copre la figura magnetica; ma il suo sogno è così profondo, la sua fiamma è così possente che talvolta il tessuto palpita alla veemenza del respiro.

      Io diedi dunque al demònico la forma di questo genio familiare; e lo sentii nella solitudine vivere d'una vita assai più intensa della mia. Non aveva io dinnanzi a me, per il prodigio durevole d'uno fra i più grandi rivelatori del mondo, non aveva io dinnanzi a me uno spirito eroico escito dal mio stesso ceppo e costituito da tutti quei caratteri distintivi della prosapia i quali io così acutamente cercava di rivelare in me medesimo e che in esso apparivano con una fierezza di rilievo quasi spaventosa?

      Eccolo ancóra dinnanzi a me, eguale sempre e pur sempre nuovo! Un tal corpo non è la carcere dell'anima ma ne è il simulacro fedele. Tutte le linee del volto quasi imberbe sono precise e ferme come in un bronzo cesellato con insistenza; la pelle ricopre d'un pallor fosco i muscoli asciutti, usi per certo a palesarsi con un tremito ferino nel desiderio e nella collera; il naso diritto e rigido, il mento ossuto e stretto, le labbra sinuose ma energicamente serrate esprimono la volontà temeraria; e lo sguardo è come una bella spada, all'ombra d'una capellatura densa e greve e quasi violetta come i grappoli d'uva che il sole affoca sul tralcio più vivace. Egli sta in piedi, visibile dal

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