La sua compagna vergine. Grace Goodwin

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La sua compagna vergine - Grace Goodwin Programma Spose Interstellari

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da sospirare tanto. Ora era un po’ che non parlavano d’altro. Di me, quella strana. Non avevo mai provato il minimo interesse per le attenzioni degli uomini, non avevo mai provato nessun tipo di lussuria, specie quando guardavo un uomo che non conoscevo. E mi andava bene, sarei stata strana, diversa. Sbagliata. Ma, poi... poi era arrivato lui. E il mio corpo si era risvegliato. Pieno di desiderio. Non riuscivo a pensare ad altro... volevo assaporarlo, sentirlo. In qualche modo, sapevo – come si sanno le cose nei sogni – che mi avrebbe presa. Che mi avrebbe scopata. Che mi avrebbe fatta sua per sempre. E io lo volevo, lo volevo disperatamente. La mia intera esistenza era concentrata su di lui. Sul suo profumo. Sulla sua voce. Sulle sue dita ruvide che mi stavano accarezzando il labbro.

      “Vuoi assaporare di nuovo il mio cazzo, compagna?”

      Compagna? Cosa? Per un momento mi sentii confusa, ma questa nuova me, la me del sogno, lo voleva. Ora. Mi abbandonai al momento, ansiosa di appagare la mia curiosità. Non ero mai stata con un uomo. Volevo sapere cosa si provasse ad averlo dentro di me. Quest’uomo. Lui era mio. E lo scenario che aveva delineato con le sue parole sembrava eccitante.

      Sapevo com’era fatto il membro di un uomo. Ero vergine, mica idiota – ma non riuscivo a cogliere le sfumature di tutto quello che mi avrebbe fatto. Non sapevo cosa avrei provato ad averlo dentro di me, o che sapore avrebbe avuto nella mia bocca. Si faceva un gran parlare di pompini. Quando ero alle superiori, certe ragazze si prodigavano persino sullo scuolabus. Ma io? Mai. Non avevo mai provato il minimo interesse per i miei compagni di classe, per non parlare dei loro cazzetti che sembravano delle matite.

      Ma con lui? La mia bocca desiderava assaporare il suo cazzo, sentirlo caldo e pesante sulla mia lingua.

      Il suo dito scivolò via, sostituito dalle sue labbra. Mi stava baciando! E non fu come Bobby Jenkins in seconda superiore. Non ci trovavamo dietro la palestra. Lui non aveva l’apparecchio.

      Non era un ragazzino. Era un uomo. Mi afferrò la nuca e mi fece inclinare la testa. La sua bocca era insistente. Mi mise la lingua in bocca. Era meraviglioso. Incredibile. La sua lingua era lenta e lasciva. Era così che doveva essere? Il calore si espanse per tutto il mio corpo, come melassa che mi attraversava le vene, una melassa densa e lenta.

      “Ti ha mai baciato un uomo prima d’ora?” mi chiese strofinandomi le labbra sulla bocca, sulla mascella.

      Scossi il capo.

      “Che cos’altro hai fatto, compagna? Chi ha toccato la tua morbida pelle? Chi ti ha baciata?” Prese a baciarmi la clavicola e subito mi mossi tra le sue braccia. Volevo che le sue labbra si avventurassero più in basso, sui miei capezzoli. E forse ancora più giù. Nessun uomo aveva mai posato la sua bocca su di me. Non lì.

      Dio, non avevo fatto mai niente. Dovevo essere una specie di barzelletta per lui. “Nessuno. Nessun’altro. Mai.” Mi costrinsi a pronunciare quest’ammissione pur sapendo che avrebbe riso di me. Chi poteva crederci oggigiorno? Una ragazza di ventun anni che era ancora vergine. Se lo avessi confidato a casa, mi avrebbe riso dietro tutto il vicinato.

      Deglutii, poi gemetti. Lui mi mordicchiò dolcemente il lobo dell’orecchio. Le sue mani vagarono sulla mia schiena, mi afferrarono il culo, accarezzandomi col pollice il marchio che avevo sul fianco. L’ondata di piacere che mi fece tremare mi fece quasi crollare le ginocchia. Ero nuda, completamente nuda, ed ero tra le sue braccia, e sentivo i suoi vestiti ruvidi che si strusciavano contro la mia pelle sensibile, come cartavetrata. I miei capezzoli si inturgidirono e gemetti. Inclinai la testa all’indietro per facilitargli l’accesso al mio collo. Non avevo mai fatto nemmeno questo, ma a quest’uomo – che mi chiamava compagna – avrei dato tutto. Tutto.

      “Non hai mai voluto nessuno prima d’ora.” Triste ma vero. Non mi ero mai sentita così. Eccitata e bagnata.

      “Bene,” mi sussurrò lui. “Tu sei mia, e a me non piace condividere quello che mi appartiene.”

      A me andava più che bene. Chiusi gli occhi e allungai la mano per provare ad affondargli le dita nei capelli, per tirarlo verso di me. Ma, per quanto duramente provassi, non riuscii a fare presa. Era come se lui stesse svanendo. Le mie mani si stavano stringendo attorno all’aria vuota.

      Lui si ritrasse e sentii freddo. Mi sentii sola.

      “Torna,” lo implorai.

      “Sei vergine?” mi chiese. Aveva smesso di toccarmi, ma la sua voce era carica di desiderio. Desiderio per me. Me!

      “Sì.” Annuii e i capelli mi caddero sulle guance. Sentii le lacrime rompere la mia voce, lacrime non di rabbia, né di tristezza, ma lacrime d’amore e felicità, amore e felicità che mi riempivano il corpo al punto da farmi male. In qualche modo, lo conoscevo, sapevo che era mio. In qualche modo, sapevo che mi amava, che mi amava per davvero. Era come se il mio cuore mi stesse colando sulla faccia.

      “Vuoi che sia io il primo?” Non riuscivo più a vederlo, ma sentii il suo sussurro proprio sopra l’orecchio.

      “Sì.”

      “Accetterai la mia reclamazione? E mi reclamerai come tua compagna? Per sempre?”

      “Sì,” ripetei. Non lo conoscevo. Ma, in qualche modo, questo mio corpo lo conosceva eccome. Mi sentivo come se fossi un’altra persona, qualcuno di magico e potente, qualcuno che non aveva paura di essere un disastro a letto. Se era riuscito a farmi star così bene con un semplice bacio, come mi sarei sentita quando mi avrebbe toccata? Cosa avrei provato sentendo il suo corpo caldo e duro, la sua pelle premuta contro la mia? Il suo cazzo dentro di me? La sua bocca che reclamava la mia, mentre mi martellava lentamente, mentre le nostre dita erano intrecciate?

      La mia mente era invasa da un milione di gesti romantici che sapevo lui avrebbe fatto per me. Era quello giusto. Mi avrebbe resa felice. Felice.

      “Sognami.” La sua voce si affievolì fino a ridursi a un semplice sussurro. Provai a trattenerlo, a resistere, ma il sogno scivolò via, come acqua tra le mie dita.

       Sognami.

      Aprii gli occhi. Sbattei le palpebre. Mi ci volle qualche secondo per capire dove mi trovassi, per accorgermi che tutto quello che era appena successo non era stato reale. L’uomo. Il bacio. Niente.

      Avevo le guance bagnate. Avevo pianto per davvero. E ora stavo piangendo per un altro motivo. La perdita. Mi sentivo deprivata. Vuota. Avevo ritrovato la dura scorza che finora niente e nessuno erano riusciti a infrangere. Solo lui.

      Mi trovavo nel centro Spose Interstellari. La stanza dei test era piccola, utilitaristica, con tavoli e sedie. Sembrava lo studio di un dottore, non un’agenzia matrimoniale per alieni. Fu la sedia sulla quale ero seduta che risvegliò i miei ricordi. Avevo i polsi bloccati ai braccioli di metallo. La sedia non era poi molto diversa da quella del mio dentista.

      Eppure essere bloccata mi dava fastidio. Sapevo che anche le carcerate si offrivano come volontarie per diventare spose. E forse, siccome erano prigioniere, dovevano legarle. Forse qualcuna aveva provato a scappare. O forse erano semplicemente violente e cattive e il personale non voleva correre rischi.

      Ma io non ero una carcerata. Io? Non avevo mai rubato niente, nemmeno un pacchetto di gomme dal negozio all’angolo, come facevano sempre quegli idioti dei miei compagni di scuola. Non imbrogliavo durante i compiti in classe e non mentivo a mia madre. Ero noiosa, triste e patetica, e mi sentivo così sola che facevo fatica a funzionare. La custode mi disse che le manette servivano a garantire la mia incolumità. Quando mi legò, mi preoccupai: forse il test era pericoloso? Ma poi

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