Una Bellissima Storia Sbagliata. Margherita Guglielmino

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Una Bellissima Storia Sbagliata - Margherita Guglielmino

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non aveva mai perdonato se stessa per non aver protetto quella creatura innocente che portava in grembo e aveva paura ad avvicinarsi a Luisa perché pensava di non essere una buona madre. Suo padre l’aveva conosciuta in una clinica in Svizzera, dove la famiglia l’aveva mandata per curare la sua fragile mente.

       Giovanni Martinelli era lì per visitare un lontano parente e aveva perso la testa per quella donnina minuta e fragile, l’aveva fatta uscire dalla clinica, le aveva chiesto di sposarlo pur sapendo che lei non lo amava e l’aveva protetta fino all’ultimo. Solo dopo aver letto il diario di sua madre, Luisa pianse la perdita di quella madre che non aveva mai conosciuto. E pianse per suo padre, per quell’uomo che aveva scelto l’infelicità; come sarebbe stata diversa la sua vita se avesse scelto di vivere a colori e di non affogare nel grigiore di quell’amore impossibile.

       Dopo pranzo Andrea si offrì di farle da Cicerone portandola a visitare la sua Milano, non quella turistica ma quella vera e genuina, lontana dagli happy hour e vicina alla gente.

       La fioraia all’angolo dei navigli, il madonnaro nella piazza, l’ambulante di palloncini, la giostra per bambini.

       E poi la mescolanza di razze e dialetti. Milano era questa e anche se la Lega la ostentava come simbolo della razza padana, quanti padani altri non erano che figli di immigrati siciliani, calabresi o campani. E oggi era il frutto di una globalizzazione maggiore.

       Adesso i figli dei siciliani, dei calabresi o dei campani erano lombardi di seconda generazione e magari sposavano indiane, filippine o nigeriane.

       C'erano cinesi con l’accento milanese e milanesi con l’accento pugliese. Milano era l’ ombelico del mondo. Lo stesso Andrea aveva sangue siciliano, suo padre era un tipografo palermitano immigrato con le valigie di cartone alla fine degli anni ‘70.

       Luisa era affascinata dalla dialettica di Andrea.

       Lo conosceva da poche ore ma sentiva di potersi fidare di lui e così quando gli chiese se per lei era un problema rivedere il dottor Di Pietro, se avessero avuto screzi sul lavoro, come un fiume in piena raccontò la sua storia.

       6

       Fin dall’inizio, dal loro primo incontro in Sierra Leone, alla mattina in cui uscì da casa sua col borsone beige e all’incontro con Sara.

       Erano passati due giorni da quando Giorgio le aveva parlato quella mattina in cucina, due lunghissimi giorni in cui aveva fatto di tutto per evitare di incontrarlo.

       Quella sera andò in ospedale a trovare Asmait ma non la trovò. Un sussulto al cuore, pensò al peggio, poi capì…

       La bambina era stata dimessa e Giorgio e Sara l’avevano portata con loro in hotel.

       Chiamò l’assistente sociale con cui ormai era entrata in confidenza e si fece dire il nome dell’hotel. Arrivò in cinque minuti, non aveva mai guidato così. Alla reception disse di voler parlare col dottor Di Pietro e pochi istanti dopo Giorgio era lì davanti a lei. Parlarono cercando di evitare di guardarsi negli occhi, lei voleva vedere Asmait, era l’unica persona con cui aveva legato dopo il risveglio e anche l’assistente sociale era d'accordo.

       Giorgio non fece alcuna obiezione, anzi disse che anche secondo lui era un bene per tutti. Così salirono insieme al quarto piano suite 401.

       Dietro la porta chiusa Luisa riconobbe il suono della voce di Asmait. Appena Giorgio aprì la porta e la bimba la vide, nonostante la vistosa fasciatura alla gamba le corse incontro. Si strinsero forte per un po’, poi Luisa reclinò la testa e la vide.

       Era bellissima, indossava una tuta intera giallo ocra con un cinturone di cuoio uguale agli stivaletti di pelle, aveva vistosi gioielli con pietre viola, un viso angelico e i capelli raccolti nell’immancabile chignon. Era poggiata all’enorme specchio dove Luisa poteva vedere se stessa riflessa.

       Com'era diversa da Sara, il giorno e la notte.

       Accanto a quella donna bella e sofisticata, la sua immagine si perdeva.

       I suoi capelli biondo cenere perennemente legati con una coda di cavallo, il maglioncino di filet azzurro, fatto a mano da Francesca per il suo compleanno, i jeans blu scoloriti e le scarpe da ginnastica. Il viso acqua e sapone senza un filo di trucco, con l’immancabile burro cacao alla pesca e gli occhiali quadrati sul naso, nessun gioiello, nessun vezzo, come poteva competere con lei, come poteva anche solo immaginare che Giorgio scegliesse lei.

       Sara, con un passo sicuro che la spiazzò le si avvicinò, le sorrise e mise una mano davanti a lei dicendole che era felice di conoscerla.

       Luisa la strinse confusa, dentro di sé si sentiva un verme, ma continuava a stringere la mano di quella donna per la quale non sapeva bene che sentimenti provare.

       Mentre dava da mangiare ai piccioni, raccontava a quello sconosciuto pezzi della sua vita, seduta su quella panchina del parco, Luisa evitava di guardarlo negli occhi.

       Era confusa non riusciva a smettere di raccontare, eppure non era da lei, non sapeva nulla di lui, fino a quella mattina Andrea Conti non sapeva neanche chi fosse.

       Tuttavia parlare con quello sconosciuto la faceva sentire bene, le dava pace, come quando dopo la confessione il prete dava l’assoluzione, non temeva nessun giudizio, su quella panchina non era la dottoressa Martinelli, non era la figlia del rettore, non era la nipote del premier, era semplicemente Luisa, una donna terribilmente fragile che era cresciuta senza amore e che si era innamorata dell’uomo sbagliato.

       Dopo quei due giorni sarebbe tornata a Bologna, avrebbe ripreso la sua vita, ma il suo bagaglio sarebbe stato più leggero perché l’aveva condiviso con un’altra persona. Non era come parlare con Anna o Fabrizio, loro le volevano bene, la giustificavano, la compativano, ma lei aveva bisogno di sentirsi dire in faccia che era una stronza, che aveva fatto una cosa bruttissima, non solo era stata l’amante di un uomo sposato ma per giunta era diventata amica della moglie, ne aveva carpito la fiducia e l’aveva pugnalata alle spalle. Era stanca di commiserarsi, di piangersi addosso per aver perso Giorgio, lei non era la vittima ma era il carnefice di sé stessa e degli altri.

       Raccontò di come Sara le chiese di aiutarla con Asmait, di come lei e Giorgio non tornarono più in Sierra Leone ma si trovarono a lavorare fianco a fianco al Bambin Gesù, di come ogni sera uscendo dall’ospedale li andava a trovare nell’ appartamento che Sara aveva trovato per la sua nuova famiglia, di come Asmait sembrasse felice con lei e di come ne fosse terribilmente gelosa.

       Di come una sera seduti sul divano mentre Asmait dormiva rannicchiata accanto a sé, Giorgio approfittando della cecità della moglie iniziò ad accarezzarla, di come lei non seppe resistere e di come da quel giorno i due tornarono ad essere amanti.

       Ogni scusa era buona per fare il turno in ospedale insieme, ogni scusa era buona per intrecciarsi le mani sotto il tavolo o baciarsi all’improvviso con la scusa di prendere il vino in cantina. Era uno strano equilibrio, un cerchio che si incastrava a pennello: Luisa aiutava Sara con Asmait, Sara era completamente presa dalla bambina e Luisa poteva al tempo stesso stare con Giorgio e con la piccolina. A volte quando rientrava nella grande casa sull’Appia dopo aver fatto l’amore con Giorgio si sentiva terribilmente in colpa ed aveva paura che quella felicità sporca e rubata avrebbe avuto un prezzo e che il destino prima o poi sarebbe passato a battere cassa.

       Erano trascorsi alcuni mesi da quando tutto era iniziato, Natale era

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