Saving Grace. Pamela Fagan Hutchins
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“Portami a casa, così posso cambiarmi. Ho un appuntamento più tardi, ma sono in cerca di compagnia fino ad allora.”
“Non canti stasera?” chiesi.
“Non ufficialmente.”
Qualunque cosa significasse.
Accostammo a casa di Ava e mi invitò dentro. Era piccola, ma pulita. Carina, la maggior parte dei mobili erano di vimini, con vaporosi cuscini bianchi. Gironzolai, guardando le sue foto, fino a che non uscì dalla camera indossando un vestito da bambolina color verde acqua con una scollatura a goccia. Indossava anche dei sandali bianchi dove tornava il motivo a goccia, sulla parte superiore in pelle.
“È chi penso che sia?” chiesi, indicando la foto di una giovane Ava con un bellissimo e famoso attore.
“Sì, sono andata all’Università di New York con lui. Non dire a nessuno che te l’ho detto, ma è gay. Tutti i più belli sono gay.” Infilò un tubetto di lucidalabbra nella borsetta bianca. “Pronta?”
“Dipende dalla cosa per cui dovrei essere pronta ma, in generale, sono pronta ad andare.”
“Sembri un avvocato.”
“In realtà, sono un avvocato.”
“Oh, questo spiega molte cose,” disse in un tono di voce che implicava ci fosse molto da spigare.
“Sì, sì, sì. Ma per cosa dovrei essere pronta?”
“Per cantare.”
Scoppiai a ridere. “Così, a caso. E no, non sono pronta.”
“Va bene. Allora andiamo al casinò. Hanno un open bar di cibo e bevande.”
Nessuna obiezione.
Dopo esserci fermate al mio hotel più a lungo del previsto, dovendo io rispondere a delle e-mail di lavoro, arrivammo al Casinò Porcus Marinus. Il casinò si trovava sulla costa sud dell’isola, vicino all’omonimo resort e a pochi passi da una spiaggia di sabbia bianca. La luna piena si rifletteva sulla superficie increspata dell’acqua. Si trattava di un enorme edificio simil-bunker, accompagnato dal più grande parcheggio dell’isola. Salimmo gli scalini per il bunker e passammo sotto ad un grande cartellone sulla porta che leggeva “Serata Karaoke”.
“Serata Karaoke?” chiesi ad Ava, con sguardo sospetto.
“È il destino,” rispose.
Entrammo, e io tossii immediatamente. Una nube di fumo aleggiava sul tetto del casinò. Per la prima volta da quando ero arrivata a St. Marcos, avevo la sensazione di essere in un posto senza tempo. Nessuna finestra. Rumori continui: il rumore bianco delle campanelle delle slot machine e i boati che erompevano dai tavoli da gioco come a comando.
E un altro rumore. In sottofondo, riuscivo a distinguere solo la voce di un DJ che cercava di convincere le persone a prendere parte al karaoke. “Chi sarà il prossimo? Sarà lei, bella signora? O lei, signore, là con la camicia rubata a Jimmy Buffett?”
Ava mi diede una piccola spinta fra le scapole, in direzione al palco. Il posto era affollato e non erano neanche le nove di sera. Ci snodammo tra la folla di caraibici confusi e turisti barcollanti. Sembrava che la maggior parte di loro avrebbe fatto meglio a spendere i propri soldi in un buon pasto o alcuni vestiti puliti.
Fui colpita da un’angosciante e indesiderata epifania. Il Porcus Marinus non era diverso dal breve assaggio che avevo avuto del casinò dell’Eldorado a Shreveport. Cercai di distrarmi. Era diverso. Un altro mondo. Diverso in un modo di cui non dovevo vergognarmi. Camminai a testa alta.
Quando arrivammo al palco, Ava non fece una piega. Mi passò davanti e raggiunse il DJ. “Signorina Ava,” disse lui al microfono. Alcune persone nel pubblico applaudirono e gridarono. “Cosa ci canterà stasera, bellissima?”
“Metti qualcosa dei No Doubt, dei Fugees, e,” si girò verso di me, “cos’altro?”
“Sono del Texas. Dammi qualcosa delle Dixie Chicks e di Miranda Lambert.”
Il DJ disse, “Miranda chi?”
“Non importa. Delle Dixie Chicks.”
“Quelle tre ragazze bionde?” chiese.
Sono sicura che avrebbero amato venire descritte così, ma gli era andata meglio che a Miranda. “Sì.”
“Yah, ce le ho.”
Ava lanciò il portafoglio alla postazione del DJ come fosse un frisbee. Io mi avvicinai e lasciai il mio sul tavolo. “Va bene?” chiesi.
Aveva già fatto iniziare Underneath It All dei No Doubt e stava muovendo la testa a ritmo della musica che usciva dalle casse e dalle cuffie che indossava in un orecchio solo. Neanche mi guardò. Il suo sguardo era fisso su Ava.
“Che cavolo,” dissi, e mi diressi verso un tavolo di fronte al palco per guardarla.
“Oh no,” disse al microfono. “Porta il tuo bana sul palco, amica.” Il suo accento si stava facendo sempre più forte.
Il pubblico applaudì ancora di più.
“Ottimo,” dissi fra me e me. “Sono l’americana incapace. La turista imbranata.”
“Il tempo passa quassù,” disse Ava, battendosi una mano sul fianco. Okay.
Sospirai e mi diressi verso il palco nello stesso prendisole bianco che stavo indossando da quando ero uscita quella mattina, salii quei tre scalini sventurati e la raggiunsi davanti al telone nero di fondo. Ero tutta angoli retti e spigoli vivi, vicino al suo vavavoom e curve. Se devi farlo, fallo con stile, pensai, e alzai di nuovo la testa.
Ora il pubblico si unì ad Ava nell’urlare e applaudire per me. Mi passò il microfono e indicò lo schermo. “Canta,” ordinò.
Così cantai. E anche lei cantò, così cantammo insieme, e fu incredibile: la mia voce vibrante, capace di raggiungere le note più alte ma troppo esile da sola, intrecciata e ispessita dalla sua voce più profonda e espressiva. Armonizzavo con lei, la accompagnavo, e lei mi restituiva il favore. Mi rilassai e immaginai i miei spigoli che si smussavano, anche solo un po’. Fu divertente.
Lasciammo il palco dopo venti minuti con una standing ovation, che rimaneva tale anche se formata da dieci uomini ubriachi e una signora dai capelli blu che si era persa tornando dal bagno nel tragitto alle slot machine.
“Chi sarà così coraggioso da seguirle?” chiese il DJ. La folla urlante rispose, “Non io”, “Niente da fare”, “No, signore”. Mise su una playlist, ci fece le congratulazioni e andò in pausa.
Collassai sulla sedia. “Champagne,” dissi alla cameriera che ci aveva seguite al tavolo.
“Anche per me,” disse Ava.
Scarabocchiò il nostro ordine e se ne andò dondolando, dandomi la miglior lezione su come vivere la mia vita con calma finora.
“Abbiamo