Tranquilla Cittadina Di Provincia. Stefano Vignaroli
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Lo strato esterno di titanio e iridio aveva protetto l'interno della capsula dal surriscaldamento dovuto al contatto con l'atmosfera terrestre. Quando i sensori della sofisticata apparecchiatura di bordo evidenziarono che la temperatura interna si era abbassata a livelli accettabili, il cervellone centrale iniziò tutta una serie di controlli e comandò la disibernazione di Alfa e Beta. Le due celle di ibernazione si aprirono e, nel giro di pochi minuti, due strani individui uscirono e cominciarono a muoversi con familiarità all'interno della navetta. Alfa e Beta avevano la pelle viscida, simile a quella delle rane, e un corpo magro con lunghi arti che terminavano con mani e piedi dalle dita prensili. Le dimensioni della testa erano esagerate rispetto a quelle del corpo, al posto delle orecchie vi erano delle branchie, avevano due fori come narici al centro del volto, due occhi enormi e una bocca senza labbra. Erano anfibi, per cui potevano svolgere la funzione respiratoria sia nell'acqua, per mezzo delle branchie, sia in atmosfera ossigenata, grazie ai polmoni di cui erano forniti. Non usavano linguaggio, in quanto la comunicazione tra loro avveniva per via telepatica. Allo stesso modo, per via telepatica, riuscivano a comunicare e impartire ordini al computer di bordo. Gli altri soggetti ibernati, da Gamma a Omega, erano quanto rimaneva della popolazione di un remoto pianeta, ai limiti della galassia, duemilaseicento anni luce di distanza, alla ricerca di un nuovo pianeta che li accogliesse, in cui le condizioni climatiche e il livello culturale della popolazione favorisse la loro integrazione, al fine di poter perpetuare la specie, che non aveva più speranza in quel pianeta che stava morendo. La stella di quel sistema aveva infatti ormai esaurito la sua energia, il pianeta era sprofondato nel buio e nel gelo totale e l'unica speranza era andarsene da lì. I pochi superstiti avevano osservato bene il pianeta Terra, un pianeta circondato da un'atmosfera ricca di Ossigeno, in cui c'erano grandi masse d'acqua e nelle terre emerse esistevano insediamenti, città più o meno grandi, illuminate artificialmente durante le ore di buio, abitate da individui dotati di intelligenza non proprio pari alla loro, ma che vi si avvicinava molto. Secondo i loro calcoli, se non fossero stati visti dai Terrestri come una minaccia, sarebbero stati ben accolti, avrebbero avuto modo di utilizzare le loro tecnologie per assumere sembianze il più vicino possibile agli abitanti autoctoni e avrebbero avuto anche la possibilità di accoppiarsi con loro per garantirsi una progenie. Lo scambio sarebbe stato vantaggioso per entrambi, loro si sarebbero potuti riprodurre, mentre i terrestri avrebbero potuto trarre giovamento da nuove tecnologie fino ad allora sconosciute. Così avevano programmato il viaggio, avevano predisposto le celle di ibernazione e avevano impartito le opportune istruzioni al cervellone di bordo. Alfa e Beta erano rimasti alla consolle di comando manuale fino all'allontanamento dall'orbita del loro vecchio pianeta, poi avevano inserito il pilota automatico e si erano infilati nelle loro celle criogene. Terminata la procedura di ibernazione, il cervellone aveva impartito all'aeronave il comando per un'accelerazione estrema. Nel giro di pochi nanosecondi, la capsula fu lanciata nell'iperspazio a velocità mille volte superiore a quella della luce, coprendo una distanza incredibile in un tempo relativamente breve. In pratica l'aeronave aveva percorso, in un tempo corrispondente a quello che erano tre anni nel suo pianeta di origine, una distanza di duemilaseicento anni luce.
Alfa e Beta saggiarono innanzitutto l'ambiente in cui erano in quel momento. La capsula era immersa nell'acqua, ma la pressione non era tale da far pensare a profondità oceaniche. Era un leggero strato di acqua, al di sopra del quale c'era atmosfera ossigenata. In ogni caso per uscire all'esterno dovevano servirsi della camera stagna, al fine di evitare che del liquido entrasse all'interno, rovinando le apparecchiature elettroniche. Risalirono, respirando per mezzo delle branchie, fino a pelo dell'acqua, da cui, parecchio più in alto, potevano vedere arrivare della luce. Aiutandosi con mani e piedi, come mosche, cominciarono a risalire le pareti verticali di quel pozzo, scavato dalla caduta della loro stessa aeronave. Man mano che salivano, la luce che giungeva dall’alto appariva sempre più evidente. Dal foro circolare, Alfa e Beta potevano vedere un cielo azzurro, cosa che in vita loro non avevano mai potuto ammirare. Mentre guardavano in alto videro alcune teste sporgersi nell'apertura. Si appiattirono contro le pareti del pozzo cilindrico, mentre un secchio legato a una corda scendeva all'interno e risaliva poco dopo pieno d'acqua.
Quinto Fabio e Publio Decio, giunti sul posto, avevano visto la voragine prodotta dalla palla di fuoco piovuta dal cielo. Poco più in là, dalla terra smossa fuoriusciva la testa di un uro dalle grosse corna.
«Quell'animale è ancora vivo, tiratelo fuori e soccorretelo, può esserci utile. E scavate quella terra, deve esserci un altro bovino e un uomo», ordinò Publio Decio ad alcuni uomini. «Di solito i galli fanno lavorare questi animali in coppia e il contadino guida l'aratro a tracciare i solchi.»
Quinto Fabio si preoccupò invece di guardare cosa ci fosse in fondo alla voragine e notò dell'acqua, ma non si accorse nella maniera più assoluta dei due strani esseri che stavano risalendo lungo le pareti di terra. Ordinò a un soldato di legare un secchio a una corda e di prelevare l'acqua.
«Quell'oggetto ha scavato per noi un pozzo, proviamo se l'acqua è buona!»
Ordinò poi a uno dei suoi uomini di assaggiarla. Come questi bevve, subì una trasformazione evidente. La pelle, resa rugosa dal sole e dalle cicatrici delle battaglie, ridiventò liscia come quella di un ragazzino dedito ai primi esercizi con le armi, i muscoli divennero vigorosi ed evidenti sulle superfici lasciate scoperte dalla tunica, l'aria malaticcia del soldato, dovuta a un enfisema polmonare incipiente, si dileguò. Quinto Fabio prese la spada e abbatté l'uomo, in quanto non poteva sopportare che uno dei suoi soldati apparisse più forte e più bello di lui. Poi bevve con avidità l'acqua del secchio fino a non farne rimanere neanche una goccia. Nel giro di pochi secondi, il suo corpo di veterano si trasformò in un robusto e giovane guerriero. Quinto si sentiva come quando, sedicenne, aveva preso per la prima volta in mano una spada di ferro e aveva sfidato i suoi commilitoni sopraffacendoli uno dopo l'altro. Mentre ammirava i suoi poderosi bicipiti, i due esseri viscidi fuoriuscirono dal pozzo, attirando l'attenzione del manipolo di soldati romani che, vedendoli come strani nemici o come fonte inusuale di cibo, si avventarono su di loro. Ogni colpo che cercavano di sferrare con lance, spade, asce o con le mani nude, veniva bloccato da un'invisibile barriera che circondava i due strani soggetti.
Alfa comunicò con Beta per mezzo delle onde cerebrali.
«Questi esseri sono strani, non sono affatto intelligenti come ci aspettavamo. Anche l'ambiente è del tutto diverso da quello che avremmo dovuto trovare in base alle nostre osservazioni.»
«Cerchiamo di catturare i soggetti più interessanti e portiamoli all'interno della navetta, avremo modo di studiarli e di fare le opportune considerazioni. Prendiamo quello che sembra il capo e l'uomo che hanno appena tirato fuori dalla terra, sembrano i più forti. Neutralizziamo tutti gli altri. Meglio non avere testimoni per il momento.»
Puntando il dito indice della mano destra verso i loro bersagli, neutralizzarono uno per uno i soldati Romani, che caddero tramortiti sul terreno, colpiti da un intensissimo raggio laser. Non sarebbero morti, sarebbero in seguito rinvenuti, ma non avrebbero ricordato nulla dell'incontro con gli alieni.
Alfa prese Kakin, mentre Beta si caricava sulle spalle Quinto Fabio, anch'egli reso innocuo dal raggio laser, e si addentrarono di nuovo nel pozzo verticale, per rientrare nell'aeronave con i loro prigionieri. Sia Kakin che Quinto Fabio vennero sistemati, ancora inermi, in una nicchia apposita, in cui il computer di bordo avrebbe