Anima Nera Anima Bianca. Patrizia Barrera
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Bande del Ku Klux Klan metà 1800
La musica rimane per l’Afro-Americano l’unica ancora di salvezza: e lui se ne serve in duplice maniera. Da un lato la utilizza come riscatto morale, spirituale, gridandola in chiesa come l’appello di un’ anima tormentata al proprio Dio, a cui il dolore viene offerto come speranza di liberazione. Dall’altra, invece, si aggrappa al lato più oscuro dell’ anima Africana, si sposa al voodoo e alla magia nera e, utilizzando lo schema atavico del botta e risposta, diviene codice segreto di comunicazione tra gli individui. Il double talk (il doppio senso) già conosciuto al pubblico bianco nell’ambito dei MINSTRELS dove il nero diveniva parodia di se stesso, ORA assume un significato di comunicazione ad ampio raggio. Determinati vocaboli cominciarono ad acquisire significati occulti atti a favorire le riunioni collettive, informare delle condizioni di vita di chi espatriava e perfino a rivelare i luoghi in cui si nascondevano i neri ribelli. Piuttosto che di Musica si può quindi parlare di ”pratiche” musicali che tra il 1865 e il 1871 assunsero significato fondamentale per il cambiamento della società Afro-Americana.
Le primissime canzoni del nero liberato che utilizzano il double talk per esprimere la condizione sociale in cui viveva, senza timore di venire maltrattato per ciò che cantava, aveva lo stile delle vecchie ballate medioevali anglosassoni, ma con un sapore del tutto Africano. Tali canzoni ci sono arrivate già epurate del loro significato occulto, ma è possibile ancora trovarne qua e là alcune tracce: parlo di UNCLE RABBIT, oppure THE GREY GOOSE, in cui il bestiario umano veniva ”nascosto” in quello animale; ma mi riferisco soprattutto alle bellissime JOHN HENRY, BOLLWEAVILLE, STEWBALL e altre dello stesso periodo.
Abbandonato il banjo, divenuto ormai trofeo del Country, l’ex schiavo rivolge il proprio dolore e il proprio senso di solitudine alla chitarra e all’ armonica, strumenti semplici, economici e in grado di ricalcare l’abitudine Africana del botta e risposta. Ben presto quindi la ”ballata” lascia il posto ad un modo del tutto nuovo di interpretare la musica del silenzio, della disgregazione e dell’alienazione sociale. Un semplicissimo giro di DO, che poteva eseguire anche un bambino, accompagnava discretamente la vera arma della comunicazione tra ex schiavi: la voce e il suo delirio.
Molti degli Stati del Sud affermano di essere la patria del Blues. Tuttavia oggi è certo che la vera anima della musica che cambiò il mondo abbia visto i natali sul Delta del Mississippi, quelle fertili zone a ridosso dell’Arkansas e che ospitavano immani piantagioni di tabacco e cotone. Qui trovavano rifugio centinaia e centinaia di ex schiavi, che vi lavoravano 15 ore al giorno, mischiati alla feccia della popolazione bianca, quella fetta poverissima di immigrati provenienti per lo più dall’ Irlanda e che nessuno voleva assumere. All’epoca neri, zingari, Irlandesi e (ahimè) Italiani erano invisi alla civilissima società Americana, che li appellava ”straccioni, ubriaconi e rissosi ominidi di Oltreoceano”. Separati dagli altri i Cinesi, che comunque costituivano una comunità a sé, già oppressa dalla loro brutalissima Mafia. Negli Stati del Nord, se gli andava bene, tutta questa gente veniva confinata in ghetti dal nome grazioso, tipo Little Italy o China Town, o quartieri come il Bronx, dove ci si uccideva per nulla e dove prostituzione, alcool e assassinio era la semplice quotidianità. Chi voleva sperare di sopravvivere in queste realtà doveva soccombere e piegarsi ai soprusi di ogni genere, oppure auto-confinarsi negli Stati del sud, dove le immani opere di bonifica, costruzione di ferrovie, spaludamento di fiumi e piantagioni reclutavano continuamente gente. Qui la vita era un inferno: la malaria, il colera, le malattie polmonari, la sifilide mietevano vittime, la paga era irrisoria e il cibo uno schifo. L’alcool veniva fabbricato con le bucce di patate, l’ età media delle prostitute era di 12 anni e la speranza di vita non superava i 35. Tuttavia fortissimo era il senso di comunità, di aiuto reciproco tra diseredati e, per forza di cose, nulli erano gli ostacoli di natura razziale. Strimpellare due note e cantare le proprie disgrazie divenne una grande valvola di sfogo e tutti, senza eccezione alcuna, se ne servivano. In questi luoghi abbandonati da Dio la religione e la spiritualità contavano poco, e il blues di queste zone si riempie di carnalità, di depravazione, di rancore verso il potere e di speranza di ribellione. E, poiché Dio era assente, rimaneva comunque Satana. Attingendo a piene mani al proprio retaggio Africano, alla cultura animista, al rito del voodoo e di tutto il grande calderone di superstizioni, riti pagani e invocazioni agli spiriti superiori mischiati insieme, nacque una musica che era contemporaneamente un inno di ribellione e un grido di dolore. Accadde che bianco e nero non solo ”cantarono” ma ”partorirono” insieme una nuova lingua, di impatto così immediato e di tale facilità musicale che si allargò a macchia d’olio con la forza di un uragano. La fine dell’800 vede così uno sdoppiamento tra la società dei derelitti: da un lato chi abitava nelle città, frequentava la Chiesa e attingeva la propria forza di sopravvivenza dalla consapevolezza che gli uomini erano tutti uguali al cospetto di Dio; dall’altra i veri bluesman, gli emarginati tra gli emarginati, che vivevano in una realtà a parte e che Dio non solo non lo conoscevano affatto, ma neanche lo avrebbero voluto. Poiché se Dio esiste COME può non volgere gli occhi sulla sofferenza umana?
La spaccatura diviene evidente quando si affronta il contenuto delle blues songs. Accadde che la società nera "emancipata“, quella che svolgeva lavori umili ma integrati nella società bianca
(i facchini, gli scaricatori di porto, gli operai di bassa lega ma anche le donne delle pulizie, le cuoche, le balie, le serve) cominciò a servirsi del blues per narrare ad altri la propria quotidianità, un esperimento che riusciva ad inserirci la famiglia, l’amore, i fatti della propria vita e - perché no? - anche Dio. Canzoni alla portata di tutti, definite spesso Urban songs, diffuse da una folta schiera di uomini sia bianchi che neri che vivevano come zingari, viaggiavano clandestini sui treni e si sfamavano facendo lavoretti qua e là, narrando poi in musica le proprie avventure. Alla fine dell’800, quindi, si può dire che esistevano DUE tipi di blues, nettamente diverse tra loro e la cui linea di demarcazione era rappresentata dalla classe sociale di appartenenza. Da un lato un Blues popolare e decisamente ”annacquato“, pubblicizzato dalle varie organizzazioni di bianchi che ne avevano compreso il grande potere commerciale .Dall’altro il blues delle paludi, dei derelitti con la D maiuscola, che cantavano la rabbia dello schiavo nei confronti del padrone bianco e che, mischiando Satana nelle proprie canzoni, risultano invisi ai bianchi quanto ai neri. Un blues carnale e prepotente lasciato, insieme ai propri autori brutti, sporchi e cattivi, nel completo oblio fino alla sua riscoperta artistica alla fine degli anni ’50. Chiaramente di quest’ ultimo ”verace” blues non esistono registrazioni dell’epoca.
Sulle rive del Mississippi, 1870
I due blues ebbero sorti diverse: tra il 1870 e il 1890 il folk nero iniziò a diffondersi per le campagne grazie a dei teatrini improvvisati su carrozzoni ambulanti, gestiti da bianchi o da neri emancipati che si autodefinivano dottori o guaritori. Essi vendevano pozioni miracolose ( in genere erbe mischiate all’ alcool o ancora più spesso acqua e alcool) per curare ogni male i quali, per attirare più pubblico, obbligavano i propri lavoranti neri ad esibirsi in canzoni improvvisate strimpellate sulla chitarra o con l’armonica, che narravano di una semplice e fantasiosa quotidianità. Canzoni che, rivolgendosi a un pubblico eterogeneo ma che richiamava molti