Una Moglie Per Collin. Shanae S. Johnson

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Una Moglie Per Collin - Shanae S. Johnson

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      Affettando la propria porzione di arrosto, Eliza sollevò gli occhi al cielo. Era un gesto che ripeteva spesso quando pensava che nessuno la capisse. Essere incompresa, aveva spiegato a Charlotte, era il destino dei secondogeniti. Ma Charlotte non riusciva proprio a capire come l’amica potesse considerarsi incompresa, quando esprimeva sempre a voce alta le proprie convinzioni e le proprie pretese.

      "D'accordo" accettò Collin.

      Infilò la mano nella tasca dei pantaloni. Le ragazze trattennero il fiato...per poi emettere un gemito collettivo quando lui estrasse quella che sembrava un'arma, ma che in realtà era uno strumento per calmare i cavalli, come sapevano tutti coloro che erano cresciuti in un ranch.

      "Ve l'avevo detto" dichiarò Eliza, l'espressione trionfante.

      Ma Collin non aveva finito di svuotare la tasca. Un attimo dopo, tirò fuori una scatoletta.

      Intorno al tavolo cadde il silenzio.

      CAPITOLO DUE

      Collin infilò la mano in tasca per tirare fuori l’anello, ma, invece della scatola di velluto lasciatagli dalla madre, le sue dita trovarono qualcosa di duro e freddo. Lo strumento per calmare i cavalli gli pizzicò l’indice mentre lo afferrava e lo tirava fuori dalla tasca per posarlo sul tavolo. Lo aveva usato prima di venire da Bennett, per curare uno dei pregiati stalloni del cugino Darcy.

      Il purosangue aveva avuto bisogno di una radiografia e di iniezioni alle giunture. Collin aveva preferito non sedarlo con le droghe, per evitare che fosse estromesso dalla prossima gara, così aveva usato un dispositivo che, a prima vista, sembrava uno strumento di tortura, ma che, usato correttamente, rilasciava gradualmente endorfine che tranquillizzavano il cavallo. In questo modo, era riuscito a medicarlo in tempo record e senza causargli alcun danno.

      Chissà se poteva utilizzarlo anche lì, al Bennett Ranch. Aveva notato i che il loro cavallo da corsa, Lefroy, zoppicava in modo sospetto e la cosa non gli era piaciuta. Gli avrebbe dato un'occhiata.

      Ma non adesso. Era lì con per uno scopo preciso ed era meglio occuparsene per primo. Aveva imparato che le donne non gradivano essere considerate meno importanti dei cavalli.

      Infilò di nuovo la mano in tasca ed estrasse la scatola di velluto che conteneva l'anello di fidanzamento del set di Chanel che la madre gli aveva lasciato. Quando era lei ad indossarlo, Collin aveva sempre ammirato la disposizione dei diamanti sulla banda laterale. In particolar modo quello grande al centro scintillava ogni volta che sua madre era fuori, alla luce del sole, il che non succedeva spesso.

      Eliza Bennett trascorreva le giornate all’aperto, con la pioggia o con il sole. Un vantaggio per la loro unione, perchè, quando fosse diventata sua moglie, avrebbe visto di nuovo l’anello scintillare.

      "Elizabeth..." iniziò. Odiava il diminutivo Eliza. Non aveva mai capito la necessità di troncare o cambiare il proprio nome "Vorrei che tu diventassi mia moglie".

      La scatola si aprì con uno scatto. I diamanti brillarono sotto la luce dei lampadari. Collin notò che nella stanza era caduto il silenzio. Avrebbe dovuto usare quell'espediente durante le future riunioni di famiglia troppo chiassose, pensò. Sarebbe stato sufficiente tirare fuori la scatola di una gioielleria e tutti avrebbero smesso di parlare.

      Tuttavia, anche Elizabeth aveva taciuto. Non aveva ancora risposto sì. Forse era il caso di aggiungere qualcos'altro? O doveva aspettare?

      Meglio aspettare.

      Ogni volta che incontrava Elizabeth in compagnia della famiglia o degli amici, lei era sempre molto ciarliera. Aveva sempre qualcosa da dire e il più delle volte lo faceva a voce alta.

      In effetti, questo era l'unico difetto della donna che aveva scelto come moglie: avere alle spalle una famiglia terribilmente rumorosa e frenetica. Tutta quell’attività logorava i nervi di Collin. Quando erano soli, invece, lei sembrava più calma e Collin la apprezzava molto di più.

      "Non puoi dire sul serio" rispose infine Elizabeth quasi urlando.

      Il suo tono di voce lo fece sobbalzare. Persino Lefroy, all'esterno, nitrì e si spostò qualche metro più in là, drizzando le orecchie per individuare la provenienza del suono. Come tutti gli animali, anche i cavalli avevano un udito molto sensibile.

      Le orecchie doloranti, Collin si guardò intorno: mr. Bennett aveva la stessa espressione di poco prima, quando stava leggendo il giornale, ma i suoi occhi scuri vagavano da Collin alla figlia e dalla figlia a Collin, come se stesse leggendo la trama della storia che si stava svolgendo nella sua sala da pranzo. Non c'era l'ombra di un sorriso sul suo volto, nè di un cipiglio. Praticamente imperscrutabile.

      Il che non fu per Collin di nessun aiuto. Aveva imparato a decifrare le espressioni facciali fin da adolescente, e non per scelta. La madre e la zia avevano fatto di tutto perchè diventasse un ragazzo più socievole, tessendo trame che non avevano funzionato. Ma in compenso aveva imparato qualcosa di molto utile: c'erano ben diciannove diversi tipi di sorrisi che potevano essere classificati, quantificati e identificati.

      Lydia e Jane stringevano entrambe le labbra in quello che poteva sembrare un sorriso. Ma gli angoli delle loro bocche non erano sollevati, e il sorriso non raggiungeva gli occhi.

      Il sorriso di Jane esprimeva imbarazzo, a giudicare dalle guance arrossate e dal modo in cui la testa era leggermente inclinata verso il basso e verso sinistra. Anche Lydia teneva la testa china, ma la bocca era chiusa e le guance erano gonfie, come se si sforzasse di trattenere una risata.

      Incapace di muoversi o di dire qualcosa, Collin attese, torreggiando su ogni persona seduta al tavolo della sala da pranzo di casa Bennett. Era percorso da una miriade di brividi di freddo e i muscoli del suo stomaco si erano contratti, pronti a ricevere il colpo.

      Ma non successe nulla. Nessuno rise di lui. Nessun dito lo indicò. Nessuno lo schernì per la sua diversità e inadeguatezza.

      Infine, il suo sguardo cadde su Charlotte Lee, che aveva preso posto al suo fianco qualche minuto prima senza dire una parola. Aveva immaginato che sarebbe stata Elizabeth a sedersi accanto a lui, ma era stato un sollievo vedere Charlotte occupare quella sedia. Era sempre stata una ragazza tranquilla come un topolino, una caratteristica che aveva conservato anche adesso che era adulta.

      Lei lo fissò, le labbra serrate, le sopracciglia inarcate. Non rideva di lui, piuttosto sembrava preoccupata. E anche un po' a disagio, come se fosse appena stato commesso un passo falso.

      Ma dove aveva sbagliato? si chiese Collin. Aveva seguito il copione alla lettera: era uscito due volte con Elizabeth per mostrarle di essere interessato a lei e, sapendo che al terzo appuntamento ci si aspettava un impegno, si era presentato con un anello.

      Cosa aveva dimenticato?

      Guardò di nuovo Charlotte. Era sempre stato in grado di decifrare le sue espressioni, perchè, a differenza delle altre ragazze, non sapeva nascondere quello che provava.

      Questa volta, lei gli sorrise. Un sorriso luminoso, che arrivava agli occhi, ma che non era nè di felicità nè di congratulazioni, perchè durò solo un attimo, come se fosse pesante da trattenere.

      Fu allora che Collin si rese conto del proprio errore.

      Girò intorno al tavolo, si avvicinò ad Elizabeth e si inginocchiò.

      "Perdonami"

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