La coscienza di Zeno. Italo Svevo
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Mio padre sapeva difendere la sua quiete da vero pater familias. L’aveva questa quiete nella sua casa e nell’animo suo. Non leggeva che dei libri insulsi e morali. Non mica per ipocrisia, ma per la più sincera convinzione: penso ch’egli sentisse vivamente la verità di quelle prediche morali e che la sua coscienza fosse quietata dalla sua adesione sincera alla virtù. Adesso che invecchio e m’avvicino al tipo del patriarca, anch’io sento che un’immoralità predicata è più punibile di un’azione immorale. Si arriva all’assassinio per amore o per odio; alla propaganda dell’assassinio solo per malvagità.
Avevamo tanto poco di comune fra di noi, ch’egli mi confessò che una delle persone che più l’inquietavano a questo mondo ero io. Il mio desiderio di salute m’aveva spinto a studiare il corpo umano. Egli, invece, aveva saputo eliminare dal suo ricordo ogni idea di quella spaventosa macchina. Per lui il cuore non pulsava e non v’era bisogno di ricordare valvole e vene e ricambio per spiegare come il suo organismo viveva. Niente movimento perché l’esperienza diceva che quanto si moveva finiva coll’arrestarsi. Anche la terra era per lui immobile e solidamente piantata su dei cardini. Naturalmente non lo disse mai, ma soffriva se gli si diceva qualche cosa che a tale concezione non si conformasse. M’interruppe con disgusto un giorno che gli parlai degli antipodi. Il pensiero di quella gente con la testa all’ingiù gli sconvolgeva lo stomaco.
Egli mi rimproverava due altre cose: la mia distrazione e la mia tendenza a ridere delle cose più serie. In fatto di distrazione egli differiva da me per un certo suo libretto in cui notava tutto quello ch’egli voleva ricordare e che rivedeva più volte al giorno. Credeva così di aver vinta la sua malattia e non ne soffriva più. Impose quel libretto anche a me, ma io non vi registrai che qualche ultima sigaretta.
In quanto al mio disprezzo per le cose serie, io credo ch’egli avesse il difetto di considerare come serie troppe cose di questo mondo. Eccone un esempio: quando, dopo di essere passato dagli studii di legge a quelli di chimica, io ritornai col suo permesso ai primi, egli mi disse bonariamente: – Resta però assodato che tu sei un pazzo.
Io non me ne offesi affatto e gli fui tanto grato della sua condiscendenza, che volli premiarlo facendolo ridere. Andai dal dottor Canestrini a farmi esaminare per averne un certificato. La cosa non fu facile perché dovetti sottomettermi perciò a lunghe e minuziose disamine. Ottenutolo, portai trionfalmente quel certificato a mio padre, ma egli non seppe riderne. Con accento accorato e con le lacrime agli occhi esclamò: – Ah! Tu sei veramente pazzo!
E questo fu il premio della mia faticosa e innocua commediola. Non me la perdonò mai e perciò mai ne rise. Farsi visitare da un medico per ischerzo? Far redigere per ischerzo un certificato munito di bolli? Cose da pazzi!
Insomma io, accanto a lui, rappresentavo la forza e talvolta penso che la scomparsa di quella debolezza, che mi elevava, fu sentita da me come una diminuzione.
Ricordo come la sua debolezza fu provata allorché quella canaglia dell’Olivi lo indusse a fare testamento. All’Olivi premeva quel testamento che doveva mettere i miei affari sotto la sua tutela e pare abbia lavorato a lungo il vecchio per indurlo a quell’opera tanto penosa. Finalmente mio padre vi si decise, ma la sua larga faccia serena s’oscurò. Pensava costantemente alla morte come se con quell’atto avesse avuto un contatto con essa.
Una sera mi domandò: – Tu credi che quando si è morti tutto cessi?
Al mistero della morte io ci penso ogni giorno, ma non ero ancora in grado di dargli le informazioni ch’egli domandava. Per fargli piacere inventai la fede più lieta nel nostro futuro.
– Io credo che sopravviva il piacere, perché il dolore non è più necessario. La dissoluzione potrebbe ricordare il piacere sessuale. Certo sarà accompagnata dal senso della felicità e del riposo visto che la ricomposizione è tanto faticosa. La dissoluzione dovrebb’essere il premio della vita!
Feci un bel fiasco. Si era ancora a tavola dopo cena. Egli, senza rispondere, si levò dalla sedia, vuotò ancora il suo bicchiere e disse:
– Non è questa l’ora di filosofare specialmente con te!
E uscì. Dispiacente lo seguii e pensai di restare con lui per distoglierlo dai pensieri tristi. M’allontanò dicendomi che gli ricordavo la morte e i suoi piaceri.
Non sapeva dimenticare il testamento finché non me ne aveva data comunicazione. Se ne ricordava ogni qualvolta mi vedeva. Una sera scoppiò:
– Devo dirti che ho fatto testamento.
Io, per stornarlo dal suo incubo, vinsi subito la sorpresa che mi produsse la sua comunicazione e gli dissi:
– Io non avrò mai questo disturbo perché spero che prima di me muoiano tutti i miei eredi!
Egli subito si inquietò del mio riso su una cosa tanto seria e ritrovò tutto il suo desiderio di punirmi. Così gli fu facile di raccontarmi il bel tiro che m’aveva fatto mettendomi sotto la tutela dell’Olivi.
Devo dirlo: io mi dimostrai un buon ragazzo; rinunziai a fare un’obiezione qualunque pur di strapparlo a quel pensiero che lo faceva soffrire. Dichiarai che qualunque fosse stata la sua ultima volontà io mi vi sarei adattato.
– Forse – aggiunsi – io saprò comportarmi in modo che tu ti troverai indotto a cambiare le tue ultime volontà.
Ciò gli piacque anche perché vedeva ch’io gli attribuivo una vita lunga, anzi lunghissima. Tuttavia volle da me addirittura un giuramento, che se egli non avesse disposto altrimenti, io non avrei mai tentato di sminuire le facoltà dell’Olivi. Io giurai visto ch’egli non volle contentarsi della mia parola d’onore. Fui tanto mite allora, che quando sono torturato dal rimorso di non averlo amato abbastanza prima che morisse, rievoco sempre quella scena. Per essere sincero devo dire che la rassegnazione alle sue disposizioni mi fu facile perché in quell’epoca l’idea di essere costretto a non lavorare m’era piuttosto simpatica.
Circa un anno prima della sua morte, io seppi una volta intervenire abbastanza energicamente a vantaggio della sua salute. M’aveva confidato di sentirsi male ed io lo costrinsi di andare da un medico dal quale anche lo accompagnai. Costui prescrisse qualche medicinale e ci disse di ritornare da lui qualche settimana dopo. Ma mio padre non volle, dichiarando che odiava i medici quanto i becchini e non prese neppure la medicina prescrittagli perché anch’essa gli ricordava medici e becchini. Restò per un paio di ore senza fumare e per un solo pasto senza vino. Si sentì molto bene quando poté congedarsi dalla cura, e io, vedendolo più lieto, non ci pensai più.
Poi lo vidi talvolta triste. Ma mi sarei meravigliato di vederlo lieto, solo e vecchio com’era.
Una sera della fine di marzo arrivai un po’ più tardi del solito a casa. Niente di male: ero caduto nelle mani di un dotto amico che aveva voluto confidarmi certe sue idee sulle origini del Cristianesimo. Era la prima volta che si voleva da me ch’io pensassi a quelle origini, eppure m’adattai alla lunga lezione per compiacere l’amico. Piovigginava e faceva freddo. Tutto era sgradevole e fosco, compresi i Greci e gli Ebrei di cui il mio amico parlava, ma pure m’adattai a quella sofferenza per ben due ore. La mia solita debolezza! Scommetto che oggi ancora sono tanto incapace di resistenza, che se qualcuno ci si mettesse sul serio potrebbe indurmi a studiare per qualche tempo l’astronomia.
Entrai nel giardino che circonda la nostra villa. A questa si accedeva