Poesie scelte. Giovanni Prati
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Covò le prime rose.
E, quando acuta e fina
Me ne ferì la spina,
Ebbi alle piaghe i dìttami
Talor della beltà.
Povero pazzo! i memori
Fogli sigilla e taci.
Fatti allo specchio, e merita
Sol della musa i baci.
Così non dissi allora
Che mi ridea l’aurora;
Or che s’infosca il vespero,
Comincio ad insavir.
Ma intanto accuse e strepiti
Mi si moveano intorno.
Oh! fosse morto, al nascere,
Della mia fama il giorno?
Petrarchi e Tassi frusti,
Caproni e bellimbusti
Fêr sinagoga il despota
Monello a maledir.
Uno inventò le favole,
Un altro le diffuse;
Chi sporse il monosillabo,
Chi pronto lo conchiuse,
E dietro al dâlli! dâlli!
Gl’insulsi pappagalli
Sul trivio ancor cinguettano
Le ree stupidità.
Sino frugâr nel tumulo
Dove tu dormi, Elisa,
E ti compianser vittima
Da’ miei tormenti uccisa;
Sorgi dall’erma bara,
Ombra sdegnata e cara;
E del compianto ipocrita
Possa arrossir chi ‘l fa.
Tal m’apparì lo splendido
Mio mondo. E il pan che fransi,
Pan tossicato al lievito,
Gittai per terra e piansi;
E imprecai quasi al nume
Che mi vestìa di piume,
Onde agitarle in etere
Livido e reo così.
Poi mi riscossi. E l’anima
Fatta matura e il piede,
Ebbi dal duol più libere
Note, più forte fede,
E camminai. Le spalle
Portâr la croce al calle,
E il cireneo del Golgota
Per me non apparì.
Meglio. Chi pensa e spasima
E non consente al duolo,
Per nude pietre e triboli
Dee camminar da solo.
E camminai. Sul viso
De’ manigoldi ho riso,
E di più bei fantasimi
Il cor mi scintillò.
Addio, febei mirmidoni,
Macre spennate piche,
Addio, volanti retori
Per forza di vesciche:
Latrami contro, o grulla
Prosopopea del nulla;
Fuor di tua riga i cantici
Erato mia pensò.
Ruppe le sacre tenebre
D’Antèla e Mantinea;
Conobbe il sasso e i salici
Di Leutra e di Platea;
Del Simoenta al margo,
Là sulla polve d’Argo,
Sentii di Smirna l’angelo
E per l’Egeo tuonar.
Tu, musa mia, la cenere
Del Ghibellin baciasti;
Tu solitaria visiti
La cameretta d’Asti,
Vaga di freschi allori,
Le antiche glorie onori,
Pensi all’Italia, e vigili
De’ padri miei l’altar.
Lasci una vil politica,
Rosa da tigne e tarpe,
A chi la vende e compera,
Come l’ebreo le ciarpe;
E, in bassi ed alti scanni
Fisando i tuoi tiranni,
Ogni giustizia vendichi,
Fai sacro ogni dolor.
Chiuso nei polsi un rivolo
Del sangue d’Alighiero,
Armi di meste collere
Il tuo civil pensiero,
E, quando il dio ti spira
Fra i nervi della lira,
Tu squarci alla fatidica
Delfo i silenzi ancor.
Deh! non cader. Se un ebete
Vulgo t’offende, oblia.
Lanciò la fatua Solima
Le pietre in Geremia,
E la dardania prole
Rise le illustri fole,
Che pur carpia la vergine
Cassandra all’avvenir.
E fu Sionne un cumulo
Di sassi e di vergogna;
E sugli iliaci ruderi
Sta il corvo e la cicogna.
O musa, i fior, che a nembo
Lasci cader dal grembo,
Possan sull’atrio ai posteri,
Non su macerie olir!
E voi smettete il mugolo,
Spadoni imbrattacarte,
Ch’ella con veglie e lacrime
Fe’ sua la fede e l’arte,
E già da voi ghirlanda
Non sogna e non dimanda,
Perché di malve e d’alighe
Non vuoi fregiarsi il crin.
Canta; e cantando arridimi,
Tu de’ miei dì sorella;
Astro nel ciel; sul pelago
Volante navicella;
Al petto inerme e nudo
Gentil lorica e scudo;
Nome al mio nome; e lampana
Sul mio sepolcro alfin.
EDMENEGARDA
CANTO PRIMO
Per le vie più deserte, in doloroso
Abito bruno e con un vel sugli occhi,
Passa la bella Edmenegarda, – e al queto
Lume degli astri si raccoglie in una
Romita barca e con le sue memorie
Vaga piangendo.
Misero! che speri,
Se ti percote Iddio? Non è già il mondo
Grandemente pietoso. Egli al banchetto
Della tua casa volentier