Poesie scelte. Giovanni Prati
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Fu l’opera d’un punto. Ella non seppe
Domar gli occhi; il mirò; di nessun’altra
Cosa le calse; piangere l’intese…
E a goccia a goccia come piombo ardente,
Nei tumulti del core impäurito
Sentí stillarsi quel terribil pianto.
Ne gemettero gli angeli. Percossa
Quell’infelice dall’orrendo caso,
Si stringe a’ figli; ma sudor le gronda
La chioma e il volto, e gelido è l’amplesso.
Tenta pensar d’Arrigo; ma turbata
Le traballa l’imagine alla mente;
Tenta pregar; non puote. Intorno gli occhi
Slancia tremando; li raccoglie ai figli.
Gli apre, gli chiude, misera! non puote,
E gli apre ancora avidamente e cerca…
Chi?… Piangetene, o cieli!
Consumata,
Consumata nell’anima è la colpa.
Ed ahi sí presto!
Che misteri asconde
Di dolor, di fortezza e di peccato
Questa superba e lagrimabil creta!
Tu pregherai, tu spererai, ma indarno.
O Edmenegarda, il demone con molte
Fatiche ha comperato la sua preda;
Per anni molti ei la vorrà. Che importa
Se tu ti slanci al tuo legno fuggendo?
Che importa, se la bruna navicella
Va come lampo, e pur gridi affannata
Al remator che acceleri la corsa?
Che val, se il tempo col desío divori?
Tendi gli orecchi. Non ti fêre un novo
Romor nell’acque? Volgiti! non odi?
Come larva notturna, che persegue
L’agitato pensier del viandante
E gli fa tardo il passo, il respir greve,
Or rotti or doppi i battiti del core,
Presso il navil d’Edmenegarda un altro
Venía solcando; e la medesim’onda,
Che dall’uno, dall’altro era percossa.
O Edmenegarda, volgiti! non odi?…
Ahi, che duro pallor t’ha ricoperta!
Che abbandono di sensi!
I tuoi fanciulli
Ti credono dormente, e si fan cenno,
Ponendo il dito sulle rosee bocche,
Di non turbarti quell’amabil sonno.
CANTO SECONDO
Sfiora le eccelse cupole, tra gli archi
Vagola e trema sugli azzurri flutti
Con la pietà d’un fuggitivo amante
Il sol che muore: ed un suo raggio estremo,
Ferendo i vetri alla romita stanza
Posa sul crin d’Edmenegarda.
Oh sole,
No, non lasciarla. Anche su lei risplendi;
È bella ancor questa colpevol fronte.
Simigliante ad un naufrago, che manda
L’ultimo grido, e vinta la persona,
Le disperate mani incrocia al petto
E piega il capo sotto l’onde e spira;
Così la combattuta Edmenegarda
Col suo dolce peccato ahi! s’addormenta.
«Tutti son lungi; ed io qui sola il noto
Rumor sospiro degli amati passi!
E ancor non viene! Ei non dovria lasciarmi
Il mio Leoni a questo tetro sogno.
Non teme ei forse ch’io svegliar mi possa?
Sì consumata nel fallir sarei?…
Oh infame il giorno che mi fûr recate
Queste note d’amore!!»
E su dal seno
Una lacera carta ella traendo,
V’infisse i lumi; la baciò; la strinse
Tra le palme e gemette.
«Io ben rammento
Che, appena l’ebbi, la gittai nel foco…
Ma estinto il soffio del dimòn l’avea.
Lungo era l’atto a lacerarla intera…
Io nol potei!»
Che sogna la demente?…
Arsa l’avrebbe?… Ah, se stridea la fiamma
Lí pronta a divorarla, indi ritorti
Avrìa gli occhi la misera. E se un primo
Impeto pur ve la traea, sparmiato
Già non avrebbe le sue belle vesti
E le man dilicate, onde salvarla
Dalle subite vampe.
Oh! qual periglio
Può rattener la donna innamorata,
Quando la punge quell’acuto immenso
Empio patir?
Deh, non parlar di queste
Crëature sì fragili e possenti,
Tu non nato ad intendere che il vile
Gaudio d’averle e d’oblïarle sempre!
«Duro è l’indugio. E ancor non vien!»
Si desta
Da lunge un’eco: Edmenegarda ascolta
Avidamente; le si fan le gote
Porpora viva… Il suo Leoni è giunto.
«– Addio, diletta!»
Ella si tacque; e un lungo
Sospir traendo, con le molli braccia
Gli cinse il collo e lo baciò.
– «Divina
Sei veramente! Durassero eterne
Quest’ore! Stolto! io non credea che tanta
In sé chiudesse voluttà la terra!…
Dov’è sembianza che alla tua somigli?
Chi non daria per queste chiome un regno,
Per baciar mille volte, com’io faccio,
Queste tue chiome, e a forza di baciarle
Stemperarsi d’amor, com’io mi stempro?…
Sì, Edmenegarda!… Piega la tua testa
Qui sul mio cor!… Deh, senti come batte
Un cor d’Italia… Ah, questi miei non sono,
Non son gli amplessi del superbo Inglese…»
«– Leoni mio, non proseguir!… Ti prego
A mani giunte, non mi far morire!…
Troppa è l’ebbrezza che nel cor mi versi;
Ma per pietà non proferir quel nome!…
Io non ho forza a sostenerlo!… Taci!…»
«– Ei ti disama;