Il Corsaro Nero. Emilio Salgari

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Il Corsaro Nero - Emilio Salgari

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curvò sul cadavere, gli strappò di mano la spada e porgendola al capitano che guardava con occhio tetro l’avventuriero, gli disse:

      – Giacché l’altra si è spezzata, prendete questa. Per bacco!… È una vera lama di Toledo, ve lo assicuro, signore.

      Il Corsaro prese la spada del vinto senza dir verbo, andò a prendere il cappello, gettò sul tavolo un doblone d’oro e uscí dalla posada seguito da Carmaux e dal negro, senza che gli altri avessero osato trattenerlo.

      CAPITOLO V. L’APPICCATO

      Quando il Corsaro ed i suoi compagni giunsero sulla Plaza de Granada, l’oscurità era cosí profonda, da non potersi distinguere una persona a venti passi di distanza.

      Un profondo silenzio regnava sulla piazza, rotto solamente dal lugubre gracidare di qualche urubu, vigilante sulle quindici forche degli appiccati. Non si udivano nemmeno piú i passi della sentinella posta dinanzi al palazzo del Governatore, la cui massa giganteggiava dinanzi alle forche.

      Tenendosi presso i muri delle case o dietro ai tronchi delle palme, il Corsaro, Carmaux ed il negro s’avanzavano lentamente, cogli orecchi tesi, gli occhi bene aperti e le mani sulle armi, tentando di giungere inosservati presso i giustiziati.

      Di tratto in tratto, quando qualche rumore echeggiava per la vasta piazza, s’arrestavano sotto la cupa ombra di qualche pianta o sotto l’oscura arcata di qualche porta, aspettando, con un certa ansietà, che il silenzio fosse tornato.

      Erano già giunti a pochi passi dalla prima forca, dalla quale dondolava, mosso dalla brezza notturna, un povero diavolo quasi nudo, quando il Corsaro additò ai compagni una forma umana che si agitava sull’angolo del palazzo del Governatore.

      – Per mille pescicani!… – borbottò Carmaux. – Ecco la sentinella!… Quell’uomo verrà a guastarci il lavoro.

      – Ma Moko è forte, – disse il negro. – Io andrò a rapire quel soldato.

      – E ti farai bucare il ventre, compare.

      Il negro sorrise, mostrando due file di denti bianchi come l’avorio, e cosí acuti da fare invidia ad uno squalo, dicendo:

      – Moko è astuto e sa strisciare come i serpenti che incanta.

      – Va’, – gli disse il Corsaro. – Prima di prenderti con me, voglio avere una prova della tua audacia.

      – L’avrete, padrone. Io prenderò quell’uomo come un tempo prendevo gli jacaré della laguna.

      Si tolse dai fianchi una corda sottile, di cuoio intrecciato e che terminava in un anello, un vero lazo, simile a quello usato dai vaqueros messicani per dare la caccia ai tori, e s’allontanò silenziosamente, senza produrre il menomo rumore.

      Il Corsaro, nascosto dietro il tronco d’una palma, lo guardava attentamente, ammirando forse la risolutezza di quel negro che, quasi inerme, andava ad affrontare un uomo bene armato e certamente risoluto.

      – Ha del fegato il compare, – disse Carmaux.

      Il Corsaro fece un cenno affermativo col capo, ma non pronunciò una sola parola. Continuava a guardare l’africano il quale strisciava al suolo come un serpente avvicinandosi lentamente al palazzo del Governatore.

      Il soldato si allontanava allora dall’angolo, dirigendosi verso il portone, era armato di un’alabarda ed al fianco portava anche una spada.

      Vedendo che gli volgeva le spalle, Moko strisciava piú velocemente tenendo in mano il lazo. Quando giunse a dodici passi si alzò rapidamente, fece volteggiare in aria due o tre volte la corda, poi la lanciò con mano sicura. S’udí un leggero sibilo, poi un grido soffocato ed il soldato stramazzò al suolo, lasciando cadere l’alabarda ed agitando pazzamente le gambe e le braccia.

      Moko, con un balzo da leone, gli era piombato addosso. Imbavagliarlo strettamente colla fascia rossa che portava alla cintola, legarlo per bene e portarlo via come se fosse stato un fanciullo, fu l’affare di pochi istanti.

      – Eccolo, – disse, gettandolo ruvidamente ai piedi del capitano.

      – Sei un valente, – rispose il Corsaro. – Legalo a questo albero e seguimi.

      Il negro obbedí aiutato da Carmaux, poi tutti e due raggiunsero il Corsaro, il quale esaminava gli appiccati dondolanti dalle forche.

      Giunti in mezzo alla piazza, il capitano s’arrestò dinanzi ad un giustiziato che indossava un costume rosso e che, per amara derisione, teneva fra le labbra un pezzo di sigaro.

      Nel vederlo, il Corsaro aveva mandato un vero grido di orrore.

      – I maledetti!… – esclamò. – Mancava a loro l’ultimo disprezzo!

      La sua voce, che pareva il lontano ruggito d’una fiera, terminò in uno straziante singhiozzo.

      – Signore, – disse Carmaux, con voce commossa, – siate forte!

      Il Corsaro fece un gesto colla mano indicandogli l’appiccato.

      – Subito, mio capitano, – rispose Carmaux.

      Il negro si era arrampicato sulla forca, tenendo fra le labbra il coltello del filibustiere. Recise con un colpo solo la fune, poi calò giú il cadavere, adagio, adagio.

      Carmaux gli si era fatto sotto. Quantunque la putrefazione avesse cominciato a decomporre le carni del Corsaro Rosso, il filibustiere lo prese delicatamente fra le braccia e l’avvolse nel mantello nero che il capitano gli porgeva.

      – Andiamo – disse il Corsaro, con un sospiro. – La nostra missione è finita e l’oceano aspetta la salma del valoroso.

      Il negro prese il cadavere, se lo accomodò fra le braccia, lo coprí per bene col mantello, e poi tutti e tre abbandonarono la piazza, tristi e taciturni. Quando però giunsero all’estremità, il Corsaro si volse guardando un’ultima volta i quattordici appiccati, i cui corpi spiccavano lugubremente fra le tenebre, e disse con voce mesta:

      – Addio, valorosi disgraziati; addio compagni del Corsaro Rosso! La filibusteria vendicherà ben presto la vostra morte.

      Poi, fissando con due occhi ardenti il palazzo del Governatore giganteggiante in fondo alla piazza, aggiunse con voce cupa:

      – Tra me e te, Wan Guld, sta la morte!…

      Si misero in cammino, frettolosi di uscire da Maracaybo e di giungere al mare per tornare a bordo della nave corsara. Ormai piú nulla avevano da fare in quella città, entro le cui vie non si sentivano piú sicuri, dopo l’avventura della posada. Avevano già percorse tre o quattro viuzze deserte, quando Carmaux, che camminava dinanzi a tutti, credette di scorgere delle ombre umane, seminascoste sotto l’oscura arcata d’una porta.

      – Adagio, – mormorò, volgendosi verso i compagni. – Se non sono diventato cieco, vi sono delle persone che mi pare ci attendano.

      – Dove? – chiese il Corsaro.

      – Là sotto.

      – Forse ancora gli uomini della posada?

      – Mille pesci… cani!… Che siano i cinque baschi colle loro navaje?

      – Cinque

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