La battaglia di Benvenuto. Francesco Domenico Guerrazzi
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Читать онлайн книгу La battaglia di Benvenuto - Francesco Domenico Guerrazzi страница 11
Pallido come quello che viene strascinato al patibolo, ma fermo nel suo fiero talento, Rogiero cavò il pugnale, e fece atto di rompersi il seno.
Forse non aveva Yole sopportato fin qui la più grave battaglia, che femmina al mondo voglia e possa sostenere? Doveva ella resistere anche a questa ultima prova, e, dovendolo, lo poteva? La passione repressa proruppe impetuosa, imperciocchè le passioni tengano della natura del fuoco; e la bella addolorata, a guisa di furente, mal sapendo che si facesse, si gittò al collo di Rogiero, ponendo il suo corpo tra il pugnale e il seno di quello. Pure così veloce fu l’atto, nè egli seppe di tanto trattenere il colpo, che a lei non iscendesse su la destra spalla, stracciasse le vesti, e la pelle lievemente sfiorasse. Ma il pugnale cadde, e rimasero abbracciati; il cuore dell’uno palpitò sul cuore dell’altro… le lagrime loro scesero confuse… le guancie, i labbri, si toccarono, – e il primo bacio di amore fu dato.
Io per me quando considero le sorti umane, credo che la gioia sia tremendo delitto davvero, perocchè la veda tanto gravemente punita; onde per quell’amore che porto ai miei compagni di maledizione, se alcuno ne incontro che adesso per anima, o per cosa acquistata, si dica felice, io mando una preghiera dalle interne mie viscere al Creatore del fulmine, e lo supplico che si degni nella sua pietà d’incenerirlo, e spargerne la polvere ai quattro venti della terra, onde l’uomo conosca, che può morire felice…
Ma perchè si rimangono tuttavia abbracciati? Oh! v’è una gioia in questa terra, che due amanti credano possa, non che superare, uguagliare gli abbracciamenti loro? Dov’è l’orgoglio del sangue? dove la paura della pena? Essi non hanno più da temere o da desiderare. Questo diletto trascorse, nè tornerà mai più. Il tempo, che essi hanno obliato, non si rimane dal percorrere la sua durata, e confondendo con le ore passate quella breve dolcezza mena velocissimo le sventure che devono intenebrare la rimanente lor vita.
La regina Elena, sposa di Manfredi, benchè per la nobiltà del suo sangue (chè discendeva dai Comneni di Epiro) alquanto orgogliosa, fu nondimeno affettuosissima madre. Una figlia ed un figlio avevano rallegrato il suo matrimonio. Gostanza, sua figliastra nata a Manfredi dalla sua prima moglie Beatrice di Savoia, portava di già corona reale, essendosi unita con Piero figlio di Giamo, potente Re di Arragona; rimaneanle però in casa Yole e Manfredino, vezzosissimo fanciullo, speranza del padre, di appena dieci anni nato; ma la sua tenerezza era per Yole, che considerava infelice; nè mai, per quanto s’ingegnasse, poteva trarla da quell’ostinato abbattimento. Le sue sembianze adesso erano maestose, una volta furono leggiadre quanto quelle della sua figlia Yole; se non che un tenue velo di malinconia, come dice il buon Pellico, diffuso per tutta la persona di questa, facea sì, che la gente piuttosto oggetto di reverenza, che di desiderio, la riputasse. Ora dunque in questa stessa sera la Regina seduta accanto il letticciuolo di Manfredino, poichè ebbe scôrto che il sonno era disceso su gli occhi della innocenza, si alzò diligentemente, e soffermatasi a considerare la pace che spirava dal volto di quel caro angioletto sentì spuntarsi una lagrima su le palpebre; allora curvò leggiera leggiera la persona, e datogli un bacio nella fronte gli susurrò sopra queste parole: – Dio sa, se pure te amo, o dolce figliuol mio; ma i tuoi sonni sono quelli del felice. Possa la pietà dell’Eterno concederti lungamente questi sonni! – Quindi lasciatolo in custodia di alcune damigelle, volse alla camera della sua diletta Yole.
Giunta che fu, aperse l’usciale; il vento, che soffiava nel corridore, glielo svelse di mano, e lo percosse con impeto alla parete. I doppieri della stanza tutti ad un punto si spensero: ella nondimeno avanzò; e sebbene acute strida la percotessero, avvisandosi di quello che era, senza turbarsi disse alle circostanti: «È qui la mia figlia Yole?» – Matelda, riconosciuta la voce, rispose tutta affannosa: «Santa Oliva di Palermo! siete voi, Regina? Voi ci avete fatto la più grande paura che mai sia stata al mondo.»
«Matelda,» soggiunse gravemente la Regina Elena «non su la vostra paura, ma di mia figlia io vi ho fatto domanda.»
«Regina, è nel giardino.»
«Rimanetevi con Dio, damigelle, e mostratevi in avvenire di più forte spirito, perchè sappiate la paura essere presentissimo segno di animo non retto.»
Così Elena, senz’altra compagnia, lasciando quelle codarde a rassicurarsi del terrore, e a dolersi del conseguito rimprovero, mosse al giardino reale, dove, poichè alquanto si fu aggirata, occorse in Gismonda. la quale, assorta nel pensiero degli ultimi casi, non le badò, se non dopo che l’ebbe per ben tre volte chiamata. A lei domandava di Yole; e vedutala mesta, volle saperne la causa, e conosciutala confortò la gentile damigella. Quindi unite si mossero a ricercare Yole.
Avvicinandosi alla gran porta che conduceva fuori del giardino, si offerse alla vista loro una donna distesa sull’erba; accorrevano affannose. – Dio eterno! Yole in quella abbandonata riconoscevano. Elena, vedendole la veste stracciata, e intrisa di sangue, riputandola morta, con orrenda ansietà le si gettò addosso cercando la parte del cuore per sentire se batteva… egli debolmente sì, ma pure batteva: allora guardò la ferita, conobbe essere leggiera, e sospirò.
«Gismonda, corri alla fontana, e porta un po’ d’acqua.»
Gismonda partiva. – Elena, postasi a sedere su l’erba. si recò in grembo la figlia, la scinse, e le soprappose una mano alla fronte, pietosamente riguardandola. Ella aveva gli occhi chiusi, e non di meno era bella. La luna la vestiva di una luce modesta, e parea godere d’illuminare quel volto, gentile quanto il suo raggio medesimo. – «Povera figlia!» ad ora ad ora diceva singhiozzando: ma allorchè il pianto le ingombrò gli occhi per modo, che più non potesse contemplare quel volto, gli volse al cielo e parlò:
«Accettate, Signore, questo sacrificio di lagrime: egli deriva da un’anima profondamente addolorata. Oh! dalla nascita di questa infelice figliuola non ho avuto più un’ora di bene. – Povera Yole! pur troppo tu fosti generata nella sventura,… ma… Dio onnipotente! se voi sapeste che sia per una madre vedere queste guance, su le quali non erano per anco sbocciate le rose della giovanezza, ora a un tratto impallidirsi: che queste membra, non ancora arrivate all’incremento loro, a poco a poco disfarsi, non mi affannereste così. – Povera innocente! La sua anima non conosce il peccato, e pure una pena orribile la turba, le avvelena la vita un secreto tormento, cui ella non può nè allontanare, nè conoscere, perchè Dio si mostra misterioso nei suoi stessi tormenti. Chiamasi pietà questa di ragunare tutte le procelle dell’inverno per atterrare un fioretto, testè apparso sul prato? Tua è questa carne, – quest’anima, tua: ma creasti tu forse per godere l’atroce diritto di distruggere? – Toglitela se ti piace, ma deh! non provarla con tanto dura battaglia… Elena! sciagurata Regina! tu hai ardito mormorare dell’Eterno… – Io? – Signore, le mie pene sono ben grandi… perdonatemi. L’angoscia accieca la mente: perdonate ad una madre, che lietamente darebbe in questo punto la vita, anzichè piangere sul sepolcro dei proprii figliuoli.»
In questo Gismonda a mani curve, a guisa di tazza, giungeva dalla fontana; ma la fretta fece sì, che appena poche stille di acqua vi si conservassero: queste nondimeno, spruzzate sul volto di Yole, ebbero virtù di ritornarla alla vita. Apriva la vergine languidamente gli sguardi, e tratto un gemito domandò: «Dove sono?»
«Nel grembo di tua madre.»
«Oh! non ne fossi mai uscita.»
«Che? Respingi il grembo che ti ha portato… il seno che ti diè il latte? Santa Maria! anche a questo era riserbata la Regina Elena?… Ah! le mie ambasce si fanno maggiori della mia pazienza.» – Così dicendo lasciava di sostenere la