La battaglia di Benvenuto. Francesco Domenico Guerrazzi
Чтение книги онлайн.
Читать онлайн книгу La battaglia di Benvenuto - Francesco Domenico Guerrazzi страница 13
Nè passò molto che quei suoi urli indistinti si accostarono a qualche cosa che parve favella umana: allora se alcuno avesse avuto coraggio di porgere orecchio, ne avrebbe ricavato queste parole:
«Ecco! – Qui stavano quelle labbra che tanto soavemente sorridevano… ora le nude mascelle par che ridano tuttavia… sì… ma del riso del serpente, allorchè delusa la madre degli uomini la intese condannata con tutte le future generazioni alla morte. – Qui i mesti occhi… e pur belli… Qui la bianca fronte, e le floride guance… – Or che rimane di tanta bellezza? Nude ossa… la parte più vaga del corpo in celere dissoluzione si consumò… l’ossa rimangono… l’ossa, come spaventoso testimonio di morte… Oh! per pietà di me… per pietà di te, perchè non fingesti?… L’anima mia geme orrendamente travagliata. Giaccio sopra letto di fuoco, dal quale non posso levarmi, e sul quale, malgrado ogni tormento di questa vita, e la eterna dannazione, tornerei a giacermi… O frutto amaro di vendetta non per anche compíta! – Io non posso più offerire il cielo, che da gran tempo sta chiuso per me; non lo intelletto ormai più che a mezzo perduto… ma io consentirei a sentirmi eternamente trasportato dai venti della terra, percosso dall’onda procellosa contro le roccie del mare, trabalzato per secoli e secoli negli abissi del caos, arso ad ogni istante dal fuoco del cielo, tormentato con tutte le angosce, che mente umana, o infernale, può immaginare, purchè potessi conseguire la intera vendetta… Allo spirito che albergava in questa testa giungeranno funeste tali novelle… Oh! questa è nuova pena, ed a un punto nuovo incitamento per me.»
Mentr’egli così tra sè fantasticava, fu aperto pianamente l’uscio della camera, ed entrò un uomo vestito doviziosamente, il quale, postosi inosservato al fianco del genuflesso, stette senza profferire parola ad ascoltare il discorso che abbiamo esposto qui innanzi.
Dicono i maestri dell’arte, che la esatta descrizione del sembiante e degli abbigliamenti di un personaggio, la qual cosa chiamano prosopografia, valga maravigliosamente a procacciare attenzione al racconto. Noi non sappiamo quanto questo possa esser vero; ma siccome i maestri meritano sempre rispetto, così non esitiamo un momento a descrivere il nuovo personaggio, protestando, che se ad alcuno non andasse a’ versi, voglia attribuirne la colpa ai maestri, che m’insegnarono cotesta figura rettorica.
Il nuovo personaggio dunque, che, come io diceva, entrò tacito, e, per così dire, furtivo, nella stanza dove l’altro si lamentava, poteva essere tre braccia alto; forse meno, che più: di corpo gracile per natura, e fatto maggiormente tale dalla abitudine del vizio. Forse egli non annoverava molti anni, tuttavolta appariva da buon tempo arrivato a quel punto nel quale l’uomo non potendo più sorgere è forza che declini. La sua testa, su la fronte un po’ calva, andava non so se ornata, o deturpata, da radi capelli rossi e distesi, ognuno dei quali pareva sorgere a bello studio in diversa direzione dal suo vicino, offrendo in tutto la immagine di quel capo che un moderno poeta con tanta evidenza di espressione assomigliava
«Ad un campo di biada già matura
Nel cui mezzo passata è la tempesta.»
Nè mai teneva il volto levato quando si trovava al cospetto di altro uomo; solo di tanto in tanto alla sfuggita lo guardava per traverso; e di subito, quasi timoroso che i suoi piccoli occhi grigi non disvelassero i pensieri della sua mente, gli riabbassava. I labbri strettamente chiusi avrebbero detto a chiunque si fosse alcun poco dilettato a considerare le umane sembianze, lui essere uomo tremante che non gli sfuggisse suo malgrado tal parola che potesse condurlo direttamente al capestro. Vero è però che una passione, che egli non sapeva frenare, glieli costringeva talvolta ad allungarsi verso lo orecchie, e le guance a piegarsi in molte minutissime rughe; allora egli sembrava sorridere. Che tutti i Santi del cielo ci salvino da cotesto sorriso! Parlava tardo, ed amaro; e poichè la tranquillità della sua anima era da gran tempo distrutta, godeva d’immenso piacere a distruggere l’altrui. Se in quel punto l’angiolo delle tenebre avesse amato comparire nel mondo con forme a lui convenevoli, certamente non poteva immaginarne più triste di quelle del Conte di Cerra.
Il suo abbigliamento consisteva in sopravvesta di velluto verde doviziosamente ricamata di argento, e foderata di vaio, lunga fino al ginocchio, e dalle parti sotto in fianco divisa; preziosa cintura, in mezzo alla quale stava effigiata l’aquila del Re Manfredi tutta di argento sopra smalto celeste, gliela stringeva alla vita; sul petto era nuovamente aperta, e le maniche non oltrepassavano la piegatura del braccio. La sottovesta poi tessuta di seta, varia di molti colori, e ornata d’infiniti bottoni di argento, aveva le maniche strette, e lunghe fino al polso. Opera di ricamo maravigliosa a vedersi era la tela che gl’ingombrava gran parte del petto e delle spalle. Una roba di panno cremisino gli fasciava strettamente le coscie, e le gambe sottili. Le scarpe erano pur rosse, appuntatissime, cinte sul grosso con un bottone di argento. Questo era a un dipresso il suo abbigliamento, quantunque molte cose per amore di brevità tralasciamo; come la berretta, a foggia di corona imperiale, ornata di belle piume; la catenella di oro che gli teneva appeso sul petto un ricco medaglione, e la spada lunghissima con l’elsa a modo di croce, secondo il costume di coloro che a quei tempi passavano in Terra Santa; i quali la usavano in questo modo, affinchè nell’ora della preghiera, la spada confitta su la sabbia presentando il segno della fede, gl’incitasse alla conquista della patria del Redentore, che volle per la salute nostra morire su cotesto istrumento di pena.
Il genuflesso, volgendo la testa, vide sopra di sè questo uomo, che lieto del suo misero stato non aveva potuto frenare il riso schifoso di cui qui sopra abbiamo fatto menzione; gli corse involontariamente la mano alla fronte, e cominciò il segno della salute, che poi invano si sforzò di compire: allora dimise la fronte, e mormorò… forse una preghiera; – ma certo ella fu detta con l’amarezza della bestemmia. Di lì a poco rialzando il volto, s’incontrava di nuovo in colui, che la sua compassione in nessuno altro modo sapeva manifestare fuorchè col sorriso, ed egli di nuovo si volse e guardò il teschio… poi lui… e poi il teschio, e da capo lui; nè quel riso cessava… All’improvviso balzato in piedi, lo afferrò per la gola; e bestialmente feroce lo atterrò, gli pose le ginocchia sul petto, e fece atto di strangolarlo. Ora la vita del Conte di Cerra era giunta al suo fine, dove non lo avesse sovvenuto il caso. Il teschio, smosso dalla sua caduta, balzava a terra mandando un rumore che parve un grido lamentoso, e rotolava fino su gli occhi dell’uomo che lo teneva per la gola: questi, dimentico di ogni altra cosa, lasciava la presa, correva anelo a raccoglierlo, lo guardava attentamente per vedere se si fosse in alcuna parte guastato, e veloce come lampo nella cassetta, e quindi nel tabernacolo, lo riponeva. Intanto il Conte di Cerra rilevatosi si aggiustava le vesti scomposte, mostrando nella faccia livida la paura del passato pericolo.
«Conte di Caserta,» dopo alcun tempo disse il Conte di Cerra accostandosi all’uscio della camera; «ditemi di grazia: che cosa farete ai vostri nemici, se tale vi comportate con gli amici e fedeli servitori vostri?»
«Anselmo,» rispose il Conte di Caserta, «vi ho detto io forse che dileggiate la mia miseria, e scherniate il mio dolore, e mi suscitiate nell’anima un’ira più profonda dei miei rimorsi? Doletevi con voi stesso, perocchè conoscete quali passioni imperversino qua dentro:… Da lungo tempo ardono… ma il cuore; non è peranco tutto cenere…»
«Prendetevela con la natura, Conte di Caserta, che mi ordinò in modo da ridere, dove altri piange. Ma parvi questa cosa da piangere, vedervi tutte le notti tormentarvi innanzi un teschio inanimato, che non può sentire le vostre bestemmie, o le vostre preghiere: nè può maledirvi, nè perdonarvi? Io ve lo ho già detto le mille volte, e vel ripeto adesso: voi ne perderete l’intelletto.»
«E conservarlo giova? E perderlo nuoce? Il rimorso vive con lui; e perduto, gli sopravvive. Un giorno l’aveva intero, capace di tutto comprendere, nè fui meno sventurato; ora io l’ho più che a mezzo perduto, nè mi sento più felice per questo.»
«Ma