La caduta di un impero. Emilio Salgari

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La caduta di un impero - Emilio Salgari

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utile disponete pure di me, giacché vado anch’io a Calcutta, e dove mi fermerò qualche settimana. Ho anch’io degli affari grossi da sbrigare, perché sono un personaggio che vale un principe e fors’anche un rajah».

      «Non mancheremo di approfittare della vostra cortesia, signore» rispose Kammamuri, il quale avrebbe fatto a meno di quel compagno di viaggio così curioso.

      Il bramino si affacciò allo sportello che in quel momento era stato sgombrato dalle stuoie umide, e si mise a guardare la campagna. Il treno, lanciato alla velocità di ottanta miglia all’ora, divorava lo spazio con un rombo sonoro, attraversando lembi di foreste, jungle e ponti metallici gettati su innumerevoli fiumi.

      La stazione era lontana, e la regione semideserta del Bengala settentrionale incominciava.

      Solo di quando in quando, a lunghi tratti, apparivano dei meschini villaggi costruiti con canne e fango e circondati da alte palizzate per impedire alle tigri, sempre numerosissime, di tentare degli attacchi notturni.

      Il bramino stette al finestrino un buon quarto d’ora, osservando il paese, poi tornò a sedersi di fronte a Kammamuri ed a Timul.

      «Sapete che io ho un triste presentimento?» disse. «Ho molto esitato prima di partire». «Quale?» «Che questo treno non giunga a Calcutta». «E perché?» chiese il maharatto. «Non lo so. Ho fatto un brutto sogno ed ho veduto cose spaventevoli». «Tutti i viaggiatori sono armati e, se non m’inganno, siamo almeno cento».

      «Anch’io, quantunque bramino, come vedete, ho un paio di pistole, eppure io sono certo di non raggiungere la regina del Bengala». «Che cosa avete sognato dunque?» «Non posso dirlo». «Speriamo che il vostro sogno non si avveri».

      «Io pregherò Brahma di guardarci da quel grande pericolo. Lasciatemi riposare, e se volete fumare andate fuori, nella galleria». Ciò detto si rovesciò sulla comoda panca e parve che si addormentasse subito.

      Kammamuri e Timul, non volendo disturbare un personaggio così importante, attraversarono lo scompartimento che non conteneva altri passeggeri, e uscirono sulla galleria per poter continuare le loro fumate.

      «Che cosa dici tu di quell’uomo?» chiese Kammamuri al giovane cercatore di piste. «Io non so, ma mi pare di vedere in lui un misterioso nemico. Che la nostra partenza dalla capitale sia stata notata dalle spie di Sindhia?» «È quello che mi domandavo, sahib» rispose Timul.

      «Che tutto d’un tratto quel Sindhia sia diventato così potente? Io ne sono stupito. Per Giove, come dice il signor Yanez, quel briccone pare che guadagni rapidamente terreno».

      «Il maharajah è ancora forte, signore, e non è uomo da spaventarsi tanto facilmente». «Sono i tradimenti che ci spaventano, mio caro». «Apriremo gli occhi, sahib».

      «Comincia ad aprirli su questo bramino. Mi ha l’aspetto di essere un fratello di quello che abbiamo catturato nelle cloache e che forse a quest’ora sarà morto. Sarò stato feroce, però contro le canaglie dobbiamo ben difenderci con tutti i mezzi». «Anche coi filosofi» disse Timul ridendo. «Hanno fatto meglio dei topi… corpo di… Siva». Il maharatto si era avvicinato rapidamente allo sportello dello scompartimento, la cui stuoia innaffiata era stata calata, ed aveva scorto il bramino il quale pareva che ascoltasse le sue parole.

      «Mio caro Timul» disse, tornando verso il giovane cercatore di piste. «Apri gli occhi su quell’uomo e non perderlo di vista».

      «Se viene a Calcutta con noi, non ce lo lasceremo scappare, signore. Mi sembra però strano che gli agenti di Sindhia siano stati già informati della nostra partenza. Che sappiano già anche lo scopo del nostro viaggio?» «Chi potrebbe dirlo? Che mi senta tranquillo, no certo». «Siamo in due, signore, e non abbiamo mai avuto paura».

      «Riaccendi la sigaretta ed entriamo. Vedremo se il bramino ci proibirà ancora di fumare». Attraversarono la galleria e passarono nel carrozzone.

      Il bramino fingeva in quel momento di dormire. Doveva essersi però coricato da qualche momento. Udendo però i due viaggiatori entrare, si alzò di scatto e disse con voce quasi minacciosa:

      «Vi ho detto che sono un bramino, e poi le mie vesti ve lo indicano. Io ho diritto a dei riguardi».

      «Di che cosa vi lamentate, signore?» chiese Kammamuri, tirando fumo a gran boccate. «Io non posso soffrire la sigaretta». «Allora cambieremo».

      Il maharatto si cacciò una mano in tasca e trasse una vecchia pipa che era già carica di quel fortissimo tabacco che usano i montanari assamesi, e che stordisce anche i più vecchi fumatori se non vi sono abituati. «Che cosa fai?» chiese il bramino, con voce irata.

      «Voi dimenticate, signore, che io sono un principe assamese. Mi pare di averlo detto». «Io non ho veduto le tue carte».

      «Datemi del voi o chiamatemi Altezza. Le mie carte poi non le mostrerò che alle autorità inglesi di Calcutta».

      «Non si rispettano più dunque i bramini nel vostro paese, dopo che Sindhia non è più sul trono?» «Sempre, signore». «Ed allora gettate via quella pipa puzzolente».

      «La spegnerò e la rimetterò in tasca, purché voi, sahib, mi diate il permesso di fumare delle sigarette».

      «Non c’è più religione oggi in India!…» gridò il bramino. «Non si distinguono più le alte caste da quelle basse». «Se siamo principi, certo ci dovete anche voi dei riguardi». «Io non ho veduti i vostri documenti».

      «Sareste un agente di polizia camuffato da bramino?» gridò Kammamuri, il quale cominciava a sentirsi il sangue montare al cervello. «Che cosa dite? E osate dire tanto a me?»

      «Io sono un seguace di Siva, e quindi per me i sacerdoti di Brahma non valgono nulla». «Il dio più grande è quello che adoro io».

      «Io mi accontento di Siva» rispose Kammamuri, il quale aveva riacquistata prontamente la sua calma. «A me basta, e non ho mai avuto da lagnarmi di lui». «È un dio bugiardo non meno di Visnù». «Di questi affari non me ne intendo, signor sacerdote».

      Accese la pipa e si mise a fumare rabbiosamente, intanto che Timul faceva strage di sigarette.

      Cominciavano ad averne abbastanza delle prepotenze di quel bramino che poteva essere qualche stretto parente di quello catturato nelle immense fogne della capitale. Per un po’ il sacerdote si lasciò affumicare, poi si alzò e uscì dalla galleria.

      Stette qualche po’ a osservare la campagna, poi, passando di galleria in galleria, raggiunse la macchina che era condotta da due indiani più neri degli africani.

      Nessuno del personale viaggiante aveva osato fermarlo o fargli qualche osservazione. I bramini erano ancora troppo potenti e perfino troppo rispettati anche dagli inglesi.

      Il macchinista, vedendolo giungere gli era subito mosso incontro per aiutarlo, ma il sacerdote, agile, e nello stesso tempo robusto, dal carro del carbone saltò sulla macchina senza perdere l’equilibrio. «Dove ci fermeremo prima, Chaifassa?» chiese. «A Bogra, dove i viaggiatori faranno colazione». «Quando giungeremo al posto fissato dai congiurati?»

      «Verso la mezzanotte, signore. La via scende, ed il treno corre con una velocità straordinaria». «Saranno pronti i nostri uomini?» «Certamente, signore». «È la Jungla Gialla che andrà in fiamme, è vero?»

      «Sì, ed il treno vi lascerà tutte le sue vetture, e fors’anche tutti i suoi passeggeri».

      «Degli altri non

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