La città del re lebbroso. Emilio Salgari
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Читать онлайн книгу La città del re lebbroso - Emilio Salgari страница 5
«No, non può essere possibile, il re di Birmania è buddista al pari di noi, e non avrebbe osato sfidare la collera di Sommona Kodom, che protegge pure il suo regno e che il suo popolo adora al pari del mio. Se ciò fosse avvenuto, Sommona ci avrebbe fatto ritrovare altri elefanti bianchi, mentre tutte le spedizioni, da me organizzate con immense spese, sono tornate a mani vuote.
Tu solo sei colpevole di aver causato la morte dei S’hen-mheng per inesperienza o per altre cause che io ancora ignoro; grandi e popolo ti accusano, e domani chiederanno giustizia.»
«Allora fammi uccidere,» rispose Lakon-tay. «Un generale che ha sfidato la morte sui campi di battaglia, per la gloria e la grandezza della nazione, non ha paura.»
Phra-Bard, in preda ad una viva eccitazione, si mise a passeggiare per l’ampia sala, senza rispondere al ministro. Aveva la fronte tempestosa ed il cupo lampo era tornato a brillare nei suoi occhi, indizi certi d’una collera violentissima.
Ad un tratto si fermò dinanzi a Lakon-tay, che era rimasto sempre in ginocchio sul primo gradino del trono, dicendogli con voce aspra:
«Che cosa accadrà ora del mio regno, privo della protezione degli elefanti bianchi, che racchiudevano l’anima di Sommona Kodom? Quali tremende sventure piomberanno sul Siam? Carestie, epidemie, invasioni di nemici, disastri inenarrabili, inondazioni e terremoti; e forse suonerà l’ultima ora per la mia dinastia.
E tutto ciò lo dovremo a te, miserabile, che non hai saputo curare la salute dei nostri S’hen-mheng ed hai irritato il nostro dio.
Levati dalla mia presenza e torna a casa tua, dove attenderai i miei ordini. Il popolo ed i grandi vorranno giustizia e l’avranno.»
«Grazia per Len-Pra,» gemette il disgraziato ministro.
«Tua figlia diverrà schiava, a meno che…»
«Prosegui, mio signore,» disse Lakon-tay, nei cui sguardi brillò lampo di speranza.
«…a meno che tu non trovi il modo di procurarmi almeno un S’hen-mheng.»
«Se colla mia vita potessi trovarlo, non esiterei a sacrificarla, mio signore.»
«Tu sei maledetto da Sommona Kodom e la tua vita non vale, oggi, quella del mio ultimo servo. Vattene e attendi a casa tua il mio castigo.»
Ciò detto Phra-Bard, che pareva in preda ad una collera furiosa, si diresse verso una delle porte di ebano, incrostate d’avorio e di madreperla, che mettevano negli appartamenti reali, e l’aperse violentemente.
«Oh mio signore, grazia per Len-Pra,» gridò il disgraziato ministro.
Il re richiuse la porta con fracasso, senza degnarsi di volgersi, e scomparve.
Lakon-tay si alzò in piedi, coi lineamenti sconvolti da un intenso dolore.
«Tutto è finito,» disse, «ma i grandi ed il popolo non assisteranno alla mia punizione. Il vecchio generale, vincitore dei Birmani e dei Cambogiani, non ha paura della morte.»
Si diresse verso la gradinata che conduceva ai giardini reali, con passo calmo. Non si accorse nemmeno che la sentinella di guardia dinanzi alla porta, che probabilmente non aveva perduto una parola di quel burrascoso colloquio, non gli rese il solito saluto.
Ormai era un uomo caduto in disgrazia, che valeva meno dell’ultimo paggio di corte.
Riattraversò, sempre immerso nei suoi dolorosi pensieri, i giardini, nei cui viali cominciavano già ad addensarsi le prime tenebre, e si diresse verso la palazzina dalla quale era uscito prima di recarsi nella sala dei S’hen-mheng.
Feng, il suo fedele paggio, lo aspettava sulla porta della magnifica sala, presso il gong sospeso sulla soglia. Vedendo comparire il padrone così disfatto, intuì la disgrazia che lo aveva colpito.
«Oh mio povero signore,» esclamò, colle lagrime agli occhi. «Il Signor elefante bianco è morto dunque?»
«Sì,» rispose il generale con voce rauca. «Tutto è finito!»
«E il re?»
Invece di rispondere, Lakon-tay entrò nella sala e con un gesto rabbioso gettò lungi da sé l’alto cappello a punta, di stoffa bianca, adorno d’un largo cerchio dorato con incisioni che rappresentavano dei fiori, insegna della sua carica; poi si strappò di dosso, lacerandola, la veste di seta gialla dalle maniche larghissime e la lunga sciarpa che gli avvolgeva i fianchi, facendo tutto a brandelli.
«Che cosa fai, mio signore?» chiese Feng, spaventato.
«Mi sbarazzo delle insegne del mio grado,» disse Lakon-tay, coi denti stretti. «Io non sono più il ministro della corte dei S’hen-mheng; oggi sono un miserabile senza carica, uno schiavo, forse un condannato ad una morte infame.
Ma Lakon-tay non poserà la testa sotto le larghe zampe dell’elefante carnefice e non darà al suo occulto nemico, né ai grandi, né al popolo, una tale soddisfazione.
Il vecchio generale mostrerà a tutti come sa morire un prode che ha sfidato il fuoco dei nemici del suo re.
Maledette insegne del mio grado… Che il vento vi disperda.
Feng, dammi un’altra veste, onde nessuno più riconosca in me il ministro della corte dei S’hen-mheng.»
«Mio signore…»
«Taci e obbedisci!…»
Feng, che conosceva troppo bene il suo padrone, uscì per tornare poco dopo con una bracciata di pezze di stoffa dette pagne, di varie lunghezze e di varie tinte, che i Siamesi indossano in vari modi incrociandole attorno al corpo, alle gambe e alle braccia; e dei calzoni larghissimi, nonché parecchi cappelli in forma di fungo o di cono o d’imbuto.
Lakon-tay si vestì frettolosamente, si gettò sulle spalle una fascia di seta assai larga che poi avvolse intorno al collo, in modo da coprirsi anche parte del viso, e uscì.
«Mio signore,» gli disse Feng, che si disponeva a seguirlo. «Devo farti preparare il palanchino?»
«No,» rispose seccamente il generale. «Va’ ad attendermi a casa mia e non dire nulla a Len-Pra.»
Scese una ricchissima gradinata di marmo, percorse un corridoio e aperse una porticina, slanciandosi nella via.
Era uscito dal palazzo reale.
Capitolo III. Len-Pra
Lakon-tay era il vero tipo del siamese, ma non aveva però quel portamento cascante, molle, snervato che si osserva in quasi tutti gli abitanti di quel regno e che produce su noi una pessima impressione.
Era un bell’uomo, piuttosto alto, ancora vigoroso malgrado i suoi cinquant’anni, dal petto ampio e dalle braccia muscolose che indicavano l’uomo abituato a maneggiare la pesante catana dei comandanti.
Aveva invece, al pari dei suoi compatrioti, la tinta della pelle olivastra con indefinibili sfumature rossastre, gli zigomi assai sporgenti, la fronte un po’ stretta, che terminava in alto quasi a punta al pari del mento, le labbra grosse e rosse. Ma i suoi occhi non erano smorti, piccoli, senza fuoco, col bulbo quasi interamente