La favorita del Mahdi. Emilio Salgari
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– Ih! ih! gridò Notis.
I due mahari, obbedienti al segnale, uscirono dalla zeribak e partirono seguendo il sentiero che menava all’ovest, prendendo un lungo trotto, alzando e abbassando bruscamente la testa e la coda, andatura assai malagevole per chi non vi è abituato, il quale crede sempre di perdere l’equilibrio e per le continue e violenti scosse prova forti dolori al capo, dolori alle mani che si gonfiano e dolori alle reni che si pestano e pare che si spezzino.
L’oscurità allora erasi fatta assai più fitta, specialmente sotto la foresta, le cui grandi vôlte di verzura impedivano che trapelassero quasi i raggi lunari. Appena appena scorgevansi i colossali tronchi di tamarindi i cui rami flessibili sostenevano enormi quantità di frutta sei volte più lunghe che larghe e ripiene di una polpa molle e acida; le grandi camerope a ventaglio dal fusto cilindrico coperto di grosse squame regolari e coronate alla sommità da un magnifico ciuffo di trenta o quaranta foglie disposte a ventaglio; le acacie mimose alte come un olmo, sui cui tronchi risaltavano le grossissime bolle della preziosa gomma che trasuda; le palme deleb coi fusti rigonfi nel mezzo e tutti i centomila arrampicanti che s’attortigliavano come serpi attorno ai tronchi degli alberi e che s’arrampicavano sui rami formando spesso dei pergolati naturali veramente ammirabili.
I mahari eccitati dalla correggia dei cavalieri, che serve nel medesimo tempo di frusta, in meno di quindici minuti attraversarono la foresta, la quale stendesi in lunghezza, sì a destra che a sinistra del Bahr-el-Abiad, da Chartum fino ad Machadat Abu Zet, su due miglia o poco più di larghezza. Sbucati nelle grandi e aride pianure di Gemaije, animate solo da qualche gruppo di palme, da qualche acacia tisica e da miserabili tugul o capanne, allungarono il passo filando come giganteschi e silenziosi fantasmi verso gli ondulati terreni del sud, in direzione d’Hossanieh.
Notis che galoppava a pochi passi di distanza da Abd-el-Kerim, s’avvide subito che questi dava segni strani d’inquietudine della quale non sapeva ancora indovinare la cagione. Lo vedeva spesso rizzarsi in sella come volesse abbracciare maggiore orizzonte, spingere lo sguardo a destra, a manca e dinanzi, e talvolta fare un gesto quasi di scoraggiamento e di stizza. Più volte lo vide portare ambe le mani agli orecchi e piegarsi verso terra come uno che cerchi raccogliere qualche lontano rumore.
— Che mai può avere? andava chiedendosi il greco tormentando la correggia del mahari e figgendo sempre gli occhi addosso al compagno. Si vede che ha qualcosa che lo preoccupa ma cerca di nascondermelo. Quegli occhi fissi sul villaggio, anzi sul caffè, proprio in quel medesimo luogo ove danzò.... Potrebbe essere vero?…
Un terribile sospetto balenò nella mente di lui, sospetto che gli fe’ gelare il sangue nelle vene e montare, nel medesimo tempo, una fiamma in viso. Un truce e sinistro lampo animò i suoi occhi che s’accesero come due carboni.
— Ah!… mormorò egli.
Trasse dalla sua borsa un pizzico di tabacco, lo arrotolò in un fogliolino di carta, ne formò una sigaretta che accese, malgrado la rapidità vertiginosa del mahari, mandò in aria tre o quattro boccate di fumo, e volgendosi verso Abd-el-Kerim:
— A che pensi cognato mio? gli chiese, affettando la massima noncuranza.
— A mille cose, rispose l’arabo.
— Tu pensi a mia sorella Elenka, Abd-el-Kerim, te lo dirò io.
L’arabo stette un momento muto, come non avesse capito.
— Non puoi ingannarti, rispose di poi. La fiamma che nasce nel cuore, non si spegne neanche in sogno.
— Ed io sai a chi penso?
— Leggere il pensiero dell’uomo non è dato che ad Allah e al suo profeta.
— Penso a quell’adorabile almea che vidi danzare a Machmudiech.
Sulla bruna pelle dell’arabo passò un fremito.
— A Fathma, articolò sordamente egli.
— Sì, a Fathma. Come la trovasti tu?
— Mi pareva avere dinanzi…
Voleva aggiungere una uri di Maometto, ma le parole gli morirono sulle labbra.
— Una bella donna, vuoi dire.
— Presso a poco. E come mai tu pensi a lei?
— Perchè?… Credo di non dir troppo, se ti confesso che i suoi occhi mi hanno affascinato e che la sua voce mi toccò il cuore.
Se fosse stato giorno Notis avrebbe potuto vedere le labbra dell’arabo contrarsi e la sua faccia diventare cinerea.
— Ah!… si sforzò di dire Abd-el-Kerim.
«Quella creatura ti ha morso il cuore?
— Di’ invece che vi ha gettato una scintilla dentro.
— E questa scintilla sarebbe?
— D’amore.
L’arabo diede un sì violento strappo alla correggia che il mahari fu forzato ad alzare la testa. Notis se ne accorse.
— Che diavolo hai Abd-el-Kerim?
— Nulla, ho sostenuto il cammello che stava per inciampare contro un sasso.
— Uh! fe’ il greco. Non so come un sasso possa trovarsi fra questi terreni.
La conversazione finì li. I due mahari che avevano per un istante rallentata la corsa, la ripresero più velocemente salendo e discendendo le colline cosparse d’erbe spinose chiamate dagli indigeni alfèh, arse dai cocenti raggi del sole equatoriale
La pianura, rotta qua e là da radi ed intristiti palmizi e da qualche torrente pantanoso, andava allora allargandosi fiancheggiata all’est dalle selve che seguono il Bahr-el-Abiad nel tortuoso suo corso e all’ovest da piccole catene di montagne, dietro le quali giganteggiavano i monti Arab, Mussa, Scemela e Mantara.
A mezza notte avevano già percorso più di mezza via, e stavano per rallentare la corsa per dare un po’ di riposo ai due animali, quando in lontananza scoppiò improvvisamente una detonazione.
Abd-el-Kerim a quello scoppio sussultò.
— Hai udito, Notis? chiese egli, staccando dalla sella il remington.
— Distintamente, amico mio, rispose il greco senza scomporsi.
— Può essere qualcuno che corre un pericolo.
— E può essere stato anche un cacciatore.
— È impossibile.
— E perchè di grazia? M’hanno detto che in queste contrade amano cacciare il leone e tu sai meglio di me che quest’animale non si caccia che di notte.
— Tuttavia…
— Aggiungi che siamo in un paese sollevato a rivolta e che le spie dei ribelli non di rado vengono a ronzare attorno agli accampamenti egiziani. Lascia Abd-el-Kerim,