Le due tigri. Emilio Salgari

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Le due tigri - Emilio Salgari

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anche dall’altro.

      I parenti però accorrevano in aiuto dei sacrificatori. Il manti aveva intanto raccolto un tizzone acceso e stava per scagliarsi contro la vittima per incendiarle le vesti, quando si udí una voce tuonante a gridare:

      – Fermi o vi fuciliamo come cani!…

      La Tigre della Malesia era improvvisamente comparsa sulla soglia della pagoda circondata dai suoi pirati e dai suoi amici, i quali avevano già puntate le carabine.

      Un urlo di spavento si era alzato fra i Thugs, poi, passato il primo istante di sorpresa, tutti si erano sbandati lasciando a terra la vedova.

      – Addosso al manti! – aveva gridato Sandokan, slanciandosi innanzi.

      Il vecchio stregone, che forse era il solo che aveva riconosciuto il comandante del praho, era stato il primo a darsi alla fuga, cacciandosi in mezzo alla folta jungla.

      In pochi salti però Sandokan e Tremal-Naik gli erano piombati addosso, mentre Yanez faceva fare ai pirati una scarica in aria per spaventare maggiormente i parenti del morto ed i loro compagni, i quali fuggivano invece attraverso il bosco di cocchi.

      – Fermati, vecchio briccone! – gridò Tremal-Naik, puntando la canna della carabina sul petto dello stregone, il quale tentava di estrarre un pugnale che portava nella fascia.

      Sandokan l’aveva già afferrato per le spalle e l’aveva costretto a cadere in ginocchio.

      – Chi siete voi e che cosa volete da me? – gridò il manti, tentando, ma inutilmente di sottrarsi alla stretta poderosa della Tigre. – Voi non siete policeman, né cipayes per arrestarmi.

      – Chi sono? Vecchio stregone, saresti per caso diventato cieco? – chiese Sandokan, lasciandolo rialzare. – Non mi conosci piú dunque?

      – Io non ti ho mai veduto.

      – Eppure tre sere or sono hai tentato di farmi strangolare dai tuoi amici, presso la pagoda di Kalí, subito dopo la festa del fuoco.

      Non te ne ricordi?

      – Tu menti! – gridò lo stregone con suprema energia.

      – Dunque non sei tu quello che hai scannato il capretto e acceso il fuoco sacro a bordo del mio praho? – chiese Sandokan ironicamente.

      – Io non ho mai scannato capre. Tu mi prendi per qualche altro personaggio.

      – Vieni con noi manti…

      – Manti hai detto? Io non lo sono mai stato.

      – Troverai nella pagoda una persona che ti darà una solenne smentita.

      – Infine che cosa volete da me? – gridò il vecchio, digrignando i denti.

      – Vederti il petto, innanzi a tutto, – disse Tremal-Naik, rovesciandolo improvvisamente a terra e premendogli il ventre con un ginocchio.

      – Fa’ portare una torcia, Sandokan.

      Quella domanda era inutile. Yanez, dopo un simulato inseguimento per allontanare i sacrificatori tornava verso Sandokan assieme a Sambigliong, che si era munito d’una delle torce abbandonate dai mussalchi.

      – È preso? – gridò il portoghese.

      – E non ci sfuggirà neanche piú, – rispose Sandokan. – E la vedova?

      – L’abbiamo salvata a tempo e pare che sia anche assai lieta di essere ancora viva. L’abbiamo portata nella pagoda.

      – Accosta la torcia, Sambigliong, – disse Tremal-Naik lacerando d’un colpo solo la casacca di tela che copriva il petto del prigioniero.

      Il manti aveva mandato un urlo di rabbia e aveva tentato di ricoprirsi, ma Sandokan fu lesto ad afferrargli le braccia, dicendogli:

      – Lascia che vediamo dunque se sei un vero thug, innanzi a tutto.

      – Lo vedi? – disse Tremal-Naik.

      Sul petto dell’indiano vi era un tatuaggio di color azzurro, raffigurante un serpente colla testa di donna, circondato da alcuni segni misteriosi.

      – È l’emblema degli strangolatori, – disse Tremal-Naik. – Tutti gli affigliati a quella setta di assassini l’hanno.

      – Ebbene, – gridò il manti, – se sono un thug che v’importa? Io non ho ucciso nessuno.

      – Alzati e seguici, – disse Sandokan.

      Il vecchio non se lo fece ripetere due volte. Appariva assai abbattuto e preoccupato, pur lanciando sguardi feroci contro gli uomini che lo circondavano.

      Fu condotto verso la pira su cui terminava d’incenerirsi il cadavere e dove si erano radunati i marinai del praho, dopo d’aver disposte qua e là delle sentinelle.

      – Surama, – disse Yanez alla giovane bajadera che era uscita dalla pagoda. – Conosci quest’uomo?

      – Sí, – rispose la fanciulla. – È il manti dei Thugs, il luogotenente del «figlio delle sacre acque del Gange».

      – Vile danzatrice! – gridò il vecchio, dardeggiando sulla bajadera uno sguardo carico d’odio. – Tu tradisci la nostra setta.

      – Io non sono mai stata un’adoratrice della dea della morte e delle stragi, – rispose Surama.

      – Ora che non puoi negare di essere l’anima dannata di Suyodhana, – disse Tremal-Naik, – mi dirai dove si sono raccolti i Thugs che un tempo abitavano i sotterranei di Rajmangal.

      Il manti guardò il bengalese per alcuni istanti, poi gli disse:

      – Se tu credi che io ti dica dove hanno nascosta tua figlia, t’inganni. Puoi uccidermi, ma io non parlerò.

      – È la tua ultima parola?.

      – Sí.

      – Sta bene: vedremo se saprai resistere a lungo.

      Il manti udendo quelle parole era diventato pallidissimo, e la sua fronte si era coperta d’un freddo sudore.

      – Che cosa vuoi fare di me? – chiese con voce strozzata.

      – Ora lo saprai.

      Si volse verso Sandokan e scambiò sotto-voce alcune parole.

      – Lo credi? – chiese la Tigre della Malesia, facendo un gesto di dubbio.

      – Vedrai che non resisterà molto.

      – Proviamo.

      Capitolo IX. LE CONFESSIONI DEL MANTI

      A un gesto di Sandokan, il malese Sambigliong che doveva aver già ricevute precedentemente delle istruzioni, si era diretto verso un grosso tamarindo che si innalzava a trenta o quaranta passi dal rogo fra le rovine della cinta della vecchia pagoda.

      Teneva in mano una lunga corda, un po’ piú grossa dei gherlini e che aveva già annodata a laccio.

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