Le figlie dei faraoni. Emilio Salgari

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Le figlie dei faraoni - Emilio Salgari

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tagliate dal grande banco.»

      «Giù tutti e aprite il passo,» comandò Ata, volgendosi verso gli altri etiopi che stavano dietro di lui, in attesa dei suoi ordini. «Non facciamoci sorprendere immobilizzati. Devono averci preparato qualche agguato. Fortunatamente il fiume è largo e le rive sono lontane.»

      Mentre i battellieri scendevano per sbarazzare quel tratto di fiume che dei nemici misteriosi avevano appositamente ostruito, comparve sulla tolda Mirinri.

      Il giovane non indossava più la lunga veste bianca che non si addiceva ad una persona d’alto grado, né aveva i piedi nudi.

      Portava invece il costume nazionale, così semplice, eppure così pittoresco, degli antichi egizi e che era rappresentato dalla kalasiris, una veste leggera, così trasparente da lasciar intravvedere le forme, a righe bianche ed azzurre, che avvolgeva il corpo a partire dal collo o dalla cavità del petto per cadere fino ai piedi e con un buco per lasciar passare la testa.

      Vi aveva aggiunto, come esigeva il costume di quell’epoca, nei personaggi cospicui, anche per le donne d’origine nobile, un collare variopinto di tela inamidata, quasi circolare, tutto chiuso, adorno di cordoni e di catene a cui erano infilate delle perline di vetro e simboli religiosi di pietre multicolori.

      Ai piedi portava delle calzature a maglia e dei sandali, lusso permesso solamente ai ricchi, formati da pellicole di papiro sovrapposte a più strati, colla punta in forma di becco, come i nostri pattini da ghiaccio, fissati con un largo laccio guernito di piastrine d’oro e trattenuti da una correggia che passava fra il pollice e l’indice.

      «Che cosa c’è dunque?» chiese, vedendo tutti gli etiopi sul sett.

      «Brutte nuove,» rispose Ounis. «Si sospetta di noi.»

      «Così presto?»

      «Questa ne è la prova. Il canale non deve essere stato chiuso per capriccio. Per compiere un simile lavoro in poche ore devono essere giunte qui molte barche, montate da parecchie centinaia d’uomini.»

      «Eppure tu hai preso per tanti anni le più accurate precauzioni. Ata è fidato?»

      «Non dubito di lui.»

      «Chi può aver tradito il segreto?»

      «Quella gita compiuta dalla principessa non era che un pretesto. Ti si cercava. Mirinri, guardati da lei!»

      «È figlia dell’usurpatore?»

      «Sì.»

      Un’emozione profonda si era dipinta sul viso del giovane Faraone. Stette parecchi istanti silenzioso, come raccolto in se stesso, poi disse con una certa esitazione:

      «Eppure mi pare impossibile che quella donna che io ho strappato dalle fauci del coccodrillo, mettendo a repentaglio la mia vita, esiga la mia morte.»

      «Odiala come la peggiore nemica.»

      «Lei! Ma dunque le donne dei Faraoni posseggono delle malìe che nessuno può spiegare?»

      «L’ami dunque?»

      «Sì, immensamente l’amo,» rispose Mirinri con uno scatto d’improvviso entusiasmo. «Io non la posso dimenticare, perché sento ogni momento che io chiudo gli occhi, il fremito che io ho provato in quel giorno, quando la trassi dal Nilo, stillante acqua sacra.»

      Ounis ebbe un sussulto ed i suoi lineamenti si contrassero quasi ferocemente.

      «Strano destino del sangue,» disse.

      Poi, volgendosi bruscamente verso Ata, che osservava sempre gli etiopi occupati a fendere, a gran colpi d’azza, l’ammasso d’erbe che impediva alla barca di proseguire la sua rotta, gli chiese:

      «Dunque?

      «Ne avremo fino a domani e forse di più,» rispose l’egiziano. «Hanno deviato delle masse enormi che hanno trattenute con un numero infinito di pali. Qui è stato compiuto un tradimento infame e anche…»

      Un urlìo furioso, che s’alzava sulla riva sinistra del fiume gigante, accompagnato da scoppi di risa, gli aveva interrotta la frase.

      «Qui, naviganti!» urlavano centinaia di voci rauche. «Non venite dunque a bere il dolce vino di palma? A terra o affonderemo la vostra nave e vi faremo bere invece l’acqua del fiume!»

      Una turba di uomini e di donne era comparsa improvvisamente sulla riva del fiume e si sbracciava, come se fosse diventata improvvisamente pazza, saltellando al di sotto dei palmizi, che ergevano i loro snelli tronchi e stendevano le loro foglie piumate.

      «Qui! Qui!» gridava senza posa. «È la festa di Bast e vuotiamo gli avanzi del vino dell’annata. Nessun forestiero può rifiutarsi! Scendete e rallegrate la nostra festa.»

      In mezzo a quell’urlìo, si udivano a squillare delle cornette che avevano delle note assordanti, quegli strani istrumenti musicali chiamati dagli antichi egizi tan e che i greci affermavano sembrare il loro suono all’urlo di cani rabbiosi; le banit ossia le arpe facevano udire dei suoni dolcissimi, ai quali si confondevano le note un po’ stridule delle nebel, le chitarre usate in quell’epoca e che sembra fossero importate dai popoli asiatici.

      Ata si era fatto oscuro in viso.

      «Un agguato o la festa annuale dei bevitori?» si chiese con apprensione.

      «Che cosa vuoi dire?» domandò Mirinri, che era stato profondamente colpito da quei suoni, che mai aveva udito a echeggiare fra le sabbie del deserto.

      «Tu non conosci le nostre feste,» rispose l’egiziano. «Il Figlio del Sole non è vissuto nelle nostre terre.»

      «Chi sono quegli uomini?»

      «Persone che si divertono,» rispose Ounis, che gli stava presso. «Tutti gli anni si radunano sulle rive del sacro fiume parecchie centinaia o migliaia di individui per terminare il vino di palma raccolto nell’annata e nessuno deve ritornare alla propria casa se non è ubbriaco. È un costume del tuo futuro popolo.»

      «E che cosa vogliono da noi?»

      «T’invitano a prendere parte alla loro festa.»

      «Io con loro?»

      «Sono ebbri, Figlio del Sole, e tu non puoi sapere a quale pericolo ci esporremmo colla barca immobilizzata, a non obbedire al loro invito,» disse Ata.

      «Non ci tenderanno un agguato?» chiese Ounis.

      «Sono troppo allegri.»

      «I tuoi uomini avranno molto da fare ancora?»

      «Sì, Ounis. Il passaggio è stato chiuso su una larghezza ragguardevole e non potremo proseguire il viaggio prima di domani mattina.»

      «Sicché dovremo accettare il loro invito?»

      «Credo che sia cosa prudente non rifiutare. Sono ubriachi, quindi capaci di tutto. D’altronde vedi le loro scialuppe muovere verso le masse erbose. Evitiamo qualsiasi sospetto e scendiamo a terra come onesti naviganti del Nilo. I miei etiopi si terranno pronti, in caso di pericolo, a difendere il Figlio del Sole.»

      CAPITOLO SESTO. La festa degli ubriachi

      Fra le tante feste che gli

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