Novelle. Balbo Cesare

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Novelle - Balbo Cesare

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mi perdoni, io non ho detto di non aver fatto niente; ho detto che era difficile; pareva impossibile. Tuttavia…» «Tuttavia, tuttavia, vuoi tu finirla, sguajato, e non farmi anelar così. L'hai tu trovata o non trovata? C'è o non c'è? S'avrà o non s'avrà?» «Eh, eh, signor mio, che fretta! ma poichè ella mi fa l'onore di paragonarmi a un can bracco, ella rimane il cacciatore, e mi scusi se le dico che ad ogni caccia ei ci vuol flemma; e a questa poi credo ce ne vorrà più del solito. In somma è scoperta, è qui presso la fanciulla; ogni cosa bene, se non fosse d'un innamorato indemoniato, quello stesso che l'altro giorno ci fece mancar la starnotta, e me la tolse come di gola. Benchè jeri sera il buon uomo m'ha pur fatto servizio. Pensi vossignoria che gli uomini erano già tutti alloggiati; io solo no, perchè non avendola veduta svolazzare, sperava pure che qualche caso m'avesse a far iscoprire il nido; ed ecco a notte già quasi buia tornar cogli armenti lo scioccone, le braccia pendenti, e l'aria smemorata; finchè veduto su una porta uno de' nostri soldati, fermavasi innanzi tutto stupidito, apriva gli occhi e più la bocca a mirare, riscuotevasi, lasciava andar vacche e buoi, ed entrava precipitando per quella porta. Io l'aveva adocchiato già, e senz'altro, qui è, diss'io; e fui là, ed entrai, e vidi la fanciulla, e il gonzo appresso, con un'aria fra truce e sbigottita, che si faceva raccontar il gran caso del nostro arrivo, e voleva dar nelle smanie, e non s'ardiva, che era uno smascellarsi dalle risa.» «Bene» disse il cavaliero, «hai tu subito mandato via il soldato, ed alloggiatovi tu?» «Mai no; la mi perdoni; avrei fatt'io mai siffatto errore? Disalloggiar quello? ficcarmi io a luogo suo? che maniera di metter sospetto nella casa, e fuori in tutta la compagnia? Massimamente, che sapendosi da tutti oramai la fiducia di cui m'onora la signoria vostra, e la fiducia de' superiori essendo sempre invidiata…» «In somma diraimi tu a che ne siamo?» «A ciò: che il soldato fu naturalmente questa mattina di quelli ordinati per partire; ed io che apposta non avea preso alloggio stanotte, ed ero stato a dormire con un altro, gli sono sottentrato stamattina; e sto là fermo e stabilito, come sarebbe appunto un cane coricato alla bocca del covile ad aspettar il coniglio, o una serpe nel nido; benchè la serpe, licenza parlando, è vossignoria, che s'ha a mangiar ella l'uccelletto.» «Bene, finisci l'impertinenze, ed ecco il primo degli scudi d'oro promessi.»

      Forza è talvolta a qualunque narratore accenare certe cose brutte e sconce, necessarie a sapersi per la storia. Ma io non sono di quelli che vi si dilettano, e se hanno a spiegarti qualche squisita scelleratezza, e' non te ne sanno perdonare la menoma particolarità. E benchè il parer intendersene, e giudicar gli uomini severamente, dicendo: così son tutti, così insegna la sperienza, io pur credetti a lor virtù, or non più no, e simili cose; dia ad uno storico una certa apparenza d'ingegno e maestria oltre il comune; ed all'incontro sembri cosa volgare e dabbenaggine il sovente ammirare e compiacersi della bontà altrui; tuttavia lo confesso, io non narro con amore, e non mi piace dire i particolari se non delle amorevoli e buone passioni degli uomini. E ricordomi che essendo a Roma, e tra per l'occasione di veder tanti bei monumenti, e per una certa natural disposizione che credo avrei avuta alla professione d'antiquario, avendo preso a studiare il Winkelmann delle arti degli antichi, fui lietissimo di trovarci fin da principio questo bellissimo precetto troppo mal seguitato dalla maggior parte de' così detti conoscitori, professori o dilettanti; che incominciando a giudicare dalle pitture e scolture, e' si vuol cercare di scoprire, conoscere e studiar le bellezze che sono in esse, prima di cercare e studiare i difetti. Ed è il vero che ammirando e contemplando le bellezze, gli occhi e l'animo si fanno ad esse, e diventano capaci di riprodurne altre simili; dove avendoli sempre fermi sulla brutezza, benchè si faccia con pensiero di fuggirla, sovente per forza d'abito ci si intoppa. Quando anche poi tu ne fossi fatto capace di fuggir la brutezza, nol sei di produrre la bellezza. Ondechè l'uno è studio attivo e creatore, l'altro passivo e solamente correttore. E così credo sia de' costumi degli uomini; che chi cerca, studia e contempla i dolci e buoni, addolcisca e migliori i suoi proprii naturalmente; dove chi s'avezza a contemplar sempre i costumi cattivi e feroci, non può a meno di non oscurare ed abbruttire i suoi. Nè è questa poi, ben sollo anch'io, tutta scelta propria; e pur troppo e' sono certi infelici che o in una parte della loro vita, od anche in tutta sembrano per destino collocati sì fattamente da non iscorgere mai dappresso nulla di veramente bello o buono o grande. Ma so pure che questo è caso più rado che non si pensa; e il maggior numero degli uomini hanno la scelta con uguale o con poco diversa facilità, di mirare alla faccia chiara e bella, ovvero alla scura e brutta della umana natura. Le mie narrazioni sono dirette a' primi, o de' secondi a chi abbia buona intenzione di passare, come gli sia possibile, tra' primi.

      Del resto giustizia vuole io dica, che quantunque cattiva impressione il leggitore abbia dal riferito colloquio potuta prendere del cavaliero; questi tuttavia non era, nè uomo interamente corrotto, e, come se ne trovano, vecchio peccatore in giovane età; nè nemmeno un ragazzaccio senza parenti, nè educazione o scappato di casa. Era di nascita ed educazione gentili, avea padre e madre tenerissimi di lui, ed una sorella pura come una colomba sgusciata ieri; ed erasi un anno innanzi partito da lei candido quasi come ella stessa. Nè era poi stato mandato all'oste solo, e senza altra cura dei genitori, come fanno taluni che finchè hanno i figliuoli in casa li tengano attaccati alle gonne della mamma o della balia; e il dì che li rilasciano, non ne prendono più pensiero. Questi avean raccomandato il figliuolo a un vecchio servitore di casa, e poi a un vecchio amico che era de' principali signori della corte del Re di Francia. Ma il servitore era rimasto per via mezzo infermo, mezzo disgustato, ed era a lui sottentrato nella fiducia del giovane quello scellerato d'Uberto. Il vecchio amico non avea potuto fare che il giovane non istesse più volentieri co' giovani che con lui, e non prendesse loro modi e pensieri e costumi. I quali costumi poi erano cattivi non solamente come di giovani e di guerrieri, ma come di conquistatori e d'invasori. Perchè cotesta qualità di conquistatori e d'invasori è di natura sua così perfida e maligna, da guastare anche gli uomini che sarebbero buoni per natura sua. Onde Toniotto, quell'amico mio che servì in Francia, mi soleva dire, che noi i quali non abbiamo veduti i Francesi se non in Italia e vestiti di quella qualità, nè possiamo dire averli conosciuti in generale, nè immaginare quanto diversi e senza comparazione migliori sieno a casa loro. Così è, diceva egli, che quella facilità che hanno, e ci par incomoda talvolta, di stabilirsi senza complimenti a casa altrui, li fa al lor paese aprir le proprie case ed esser ospitali, con una grazia che non è di nessun'altra gente. Così quello sprecar e buttar via i quattrini per vanità e spensieratezza che li fa rimaner senza, e prendere, forza è pur confessarlo, senza grande scrupolo gli altrui quando possono, li fa, quando sono a casa propria, facili, generosi ed ingegnosi spenditori; onde non è gente meno avara, ma che sappia meglio farsi onore con la metà di quello che ci vorrebbe ad ogni altro. Così quell'arroganza impertinente a casa d'altri di dirsi il primo popolo del mondo, si riduce a casa loro, dove non hanno occasioni di odiose comparazioni, ad una tal qual giusta alterezza ed una fiducia di sè stessi, che non istà male agli uomini, nè uno ad uno, nè come nazione. Finalmente quel loro stesso peccato capitale, di che fanno conquistando sì grande scandalo, non comparisce di gran lunga tanto a casa loro, e quasi direbbesi che ne sieno rei meno che nessuno. E si vuol anzi confessare che non è forse paese dove si trovino tante coppie di buoni mariti e mogli; e famiglie di parenti e figliuoli e fratelli che vivano bene insieme, e donne bene occupate de' maneggi di casa e della buona educazione de' figliuoli. E perchè le lingue e principalmente le parole e le frasi che si trovano in una e non nell'altra, sempre mi parvero indizio non disprezzabile de' costumi delle nazioni; io osservava poi che i Francesi sono i soli che abbiano la parola ménage, che comprende tutta la famiglia vivente insieme al medesimo desco, anzi tutta la servitù, e quasi anche la materialità della casa e de' mobili, e d'ogni cosa in somma che è sotto al tetto domestico. Bella parola, da cui derivano due belli e dolcissimi modi di dire, bon ménage e bonne ménagère. Voci anche queste che non suonano se non in Francia, e di cui la realità vi si trova, al dir di Toniotto, più frequente che altrove. Nè potrei dire io poi quanto mi satisfacessero questi discorsi dell'amico. Perchè da una parte il divino precetto di amar il prossimo qualunque sia, e la mia propria natura amorevole o forse molle, mi portavano ad amar tutti gli uomini e a trovar in tutte le nazioni da me conosciute, insieme con alcuni vizi o difetti proprii, molte qualità e virtù non meno proprie loro. Dall'altra poi non solamente gli esempi degli antichi che davano un solo senso e promiscuamente usavano quelle tre parole di straniero, e barbaro, e nimico, ma più poi gli esempi nuovi veduti e provati da noi stessi mi additavano in ogni straniero, con qualunque nome

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