Novelle. Balbo Cesare

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Novelle - Balbo Cesare

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o somme valli che si trovano in quasi tutte le alpi, ed Alpi sono dette per antonomasia da' paesani. Nè vi ha terra, casa od abitato colà; ma ad ogni pascolo una bassa capanniccia, che mentre l'armento consuma l'erbe, serve al pastore a raccoglier sè talvolta e il latte e il vasellame da fare il cacio. Nè, durante que' pochi mesi, finchè è finito il pascolo o la stagione, il solitario Alpigiano scende mai da quella sua terrazza, dov'è quasi un San Simone Stilita sospeso tra cielo e terra; nè vede viso d'uomo più di tre o quattro volte, che la donna o i parenti vengono a rinfrescar sue provvissioni, e riportar giù i caci fatti. All'autunno, prima delle prime nevi, ei s'affretta a discendere. Che se i ghiacci ingombrassero i passi già per sè pericolosi, e frequenti di rozze croci, segni di non radi accidenti succeduti nell'istessa state; vi avrebbero a perire inevitabilmente gli armenti, e mal potrebbe salvarsi, quantunque destro e di sicuro piede oltre ogni credere, l'istesso Alpigiano.

      Due o tre giorni passarono dopo quella, non so s'io dica con Alda innocente gita, o con Giacometto dannevole scorreria per il mondo, senza che in quel mondo della Badia succedesse cosa degna di memoria, o che turbasse la pace solita del monistero, o quella anche più solita de' poveri abituri. Ma una sera, come cadeva il sole chiarissimo dietro il Monginevra e il giogo dell'Altaretta, s'udì un certo tocco di campana, che era la chiamata a concistoro delle principali dignità del cenobio. E perchè non era il giorno nè l'ora solita a ciò, meravigliandosene i villanelli, incominciarono a sbucar fuori ognuno dalle loro casucce, ed a mirar prima al campanile, e poi chi qua, chi là in aria e in terra; come se mirando, avessero a scoprire che cosa fosse quella che avea data occasione alla straordinaria chiamata. E sì che delle cento volte, novantanove avrebbero potuto mirare da mattina a sera, senza per ciò indovinare, nè dai moti della campana nè da nessun altro segno visibile, quale o quanto fosse il soggetto delle importanti deliberazioni di quel consesso. Ma questa volta fu l'una delle cento che potè essere satisfatta lor curiosità. Perchè tutti quelli che mirarono in aria non iscoprirono nulla, nulla quelli che mirarono in terra verso a ponente, nulla a settentrione, nulla a levante; ma coloro che a caso rivolser gli occhi a mezzogiorno verso il pendio più lene da quella parte, e la via più larga che dalla Sacra scende a Giaveno, questi, dico, credettero prima vedere, e poi certo videro e chiaramente distinsero venir su per la via una fila, che chi diceva di dugento, chi di cinquecento ed anche più, ma in vero erano da sessanta cavalli francesi, con innanzi il trombettiere che di tempo in tempo s'udiva far risonare le valli, ed alla testa il capitano, le armi di cui più brillanti si vedevano luccicare a' raggi orizzontali del sol cadente, e in ultimo la bandiera vivamente sventolata dall'aria notturna che sorgeva. «Che sarà? Che vengono egli a fare? Che succederà?» Siffatte questioni generali, e sminuzzate in cento altre parziali ed incidenti, colle loro rispettive risposte, agitavansi a un tempo dentro e fuori il sacro recinto senza conclusione; finchè a un tratto ed or vicinissima s'udì la tromba intonare come un ingresso trionfale, e si vide la schiera alla sfilata passar tra le casucce, e seguita da tutti i loro abitanti, arrivare alla porta grande del monistero. La quale aprendosi, compariva addentro un'altra schiera più numerosa, che trattandosi di resistenza avrebbe potuto farne una gloriosissima; se non che era schiera di pace, e tutt'altro che militarmente, addobbata a processione; tanti monaci, due a due, co' visi bassi, le mani dentro alle larghe maniche, e l'abate innanzi a tutti in rocchetto, il volto tra umile e maestoso, una barba lunga e bianca più del bianchissimo abito, ed accanto un fraticello che gli portava l'acqua benedetta. Veduti i quali dal capitano, che giovane e di gentil apparenza era subitamente sceso da cavallo, e rispettosamente inchinato, prese dell'acqua benedetta, e in lingua francese molto ben intesa dall'abate, dissegli poi: come essendo giù nella valle gran carestia di fieni e d'altre vettovaglie, ed anche essendosi udito di certe mosse de' nemici del Re di Francia e del Duca per le parti di que' monti, i capitani superiori suoi aveano pensato mandar alcune truppe a stanziare al monistero per difenderlo; ed egli per divozione al santo Arcangelo, e per aver cura che la sua gente non facesse cosa men grata ai reverendi monaci o al reverendissimo padre abate, avea voluto egli stesso condur la schiera, e dimorar con essa finchè fosse d'uopo. L'abate rispondeva nella medesima lingua: che quantunque piacevole fosse a lui personalmente l'aver ad esercitar l'ospitalità verso un gentil cavaliero, e compiacere al signor Duca, o al Re di Francia; tuttavia come abate di quel santo privilegiato monistero, era dover suo principalissimo serbarne illese le immunità, nè concedere che, lui vivente, contro l'esempio degli antecessori, a danno di tutti i successori s'infrangessero quelle. Così dicendo faceva un cenno, ed avanzavansi due monaci, probabilemente l'archivista e il segretario, con una dozzina di rotoli di pergamena, i gran suggelli pendenti; e mentre l'uno teneva il fascio, l'altro incominciava a srotolare, e leggeva dal Noi per la Dio grazia re o imperadore, fino alla firma, senza perdonarne parola. Finito il primo diploma, afferrava il secondo, e s'apparechiava a darne, non meno che de' dieci altri, distesa lettura. Ma il giovane francese, seccato di quelle lungaggini, soverchiatore come ogni conquistatore, e in particolare come quell'altro Francese o Gallo, forse antenato suo, che mentre si stava pesando o disputando l'oro a lui pattuito, buttò la spada di soprappiù al contrappeso su la bilancia; il giovane, dico, ch'avea altrettanta furia, ma pur un po' più di cortesia, avanzata la mano, impedì dolcemente che si srotolasse la seconda pergamena, diè per conceduto e riconobbe qualunque privilegio avesse o potesse avere il monistero, e ne allegò egli all'incontro uno solo; il privilegio della guerra, e della necessità che dovea scusare chi gli avea dato quel comando. Perchè, quanto a lui non gli abbisognava nemmeno quella scusa, bastandogli l'ordine ricevuto, che ei doveva e farebbe eseguire. Molte altre parole passarono poi in questo negoziato. Il quale, come tutti quelli dove sta da una parte tutto il diritto e dall'altra tutta la forza, incominciò con proposizioni differentissime, anzi contrarie; ma la parte giusta già sapendo di dover cedere, ogni suo sforzo suol essere di cedere il meno possibile, onde quando si crede a tal punto, ella s'affretta a conchiudere per paura di riperdere quello che ha pur salvato. E in somma tra il vecchio padre e il giovane capitano e' si conchiuse: che non potendo quegli acconsentire a niuna diminuzione di privilegi, ma non avendo forze da difenderli, nè concedeva nè impediva che i soldati si alloggiassero fuor delle mura del monistero, come potessero. Ma fu poi tacitamente, e quasi articolo segreto, stipulato che al mattino appresso ne ripartirebbero la metà, e il capitano, non come capitano, ma come ospite e divoto del Santo, con quattro o cinque de' suoi, fin da quella notte albergherebbe entro il sacro recinto. Fatto l'accordo, i frati a un cenno dell'abate, i soldati al comando del capitano, fecero ognuno dalla lor parte un dietro fronte, spargendosi quelli nelle lor celle, questi nelle casupole de' contadini: mentre i due alti contrattanti se ne furono insieme amichevolmente a più lauta cena nelle camere dell'abate; e fu poi il capitano condotto alle sue, nella ben apparecchiata foresteria.

      Il mattino appresso all'alzarsi del cavaliero, mentre stava a comporsi non senza arte la bionda chioma e la barbetta ricciuta, e vestire il sottabito di pelle di camoscio, e cinger la spada, abbigliamento solito de' cavalieri, quando non essendo in marcia nè in battaglia non vestivano a ferro; entrò in camera a lui uno de' suoi uomini d'arme, una tal figura che non sapresti dire se le sue fattezze fossero scolpite a ritrar più grossezza o più astutezza, più rozzezza o più corruzione. Eravi ogni cosa insieme, ma l'astutezza pareva essere soverchiata da ciò che il furfante aveva in animo o stava per dire. «Son partiti i nostri uomini, Uberto?» incominciò il cavaliero vedendolo entrare. «Signor sì» rispose colui. «Il vostro esercito è ridotto a metà. Grande imprudenza, se m'è lecito dire, a un capitano che abbia a difendere questi luoghi dai nemici di sua Altezza il Re di Francia e de' suoi alleati. Trenta cavalli soli…» «Uberto, lascia tue celie, che sei cattivo giullare, il sai nè t'ho menato qui, nè ti pago per ciò; trenta cavalli sono anche troppi per l'impresa che siam venuti. A tali cacce basta e soverchia un solo bracco come tu. Hai tu tracciato nulla?» «Signore! signor mio,» riprese lo scaltro che voleva innalzar i proprii meriti, «per carità, signor mio, com'è possibile? Giunti ieri notte, stanchi, senz'albergo; mentre vossignoria stava qui a cenar grassamente da monsignor l'abate, noi fuori a far gli alloggi, governar i cavalli, veder ognuno che si potesse avere per un po' di cena da questi villani. E in verità che pare ci sia passato tutto l'oste col banno e l'arrier banno di Francia, tanto son rasi e tosi, e fra due giorni se non ci fa provveder la signoria vostra, e' sarà forza disalloggiar tutti. E' si sta troppo male; e per quanto dicessi io, i soldati incominciano a mormorare.» «Bene bene, si provvederà, e si manderà via l'altra metà; ma io qui solo senza pretesto non vi potevo venire; e se tu non fossi un poltronaccio,

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