Novelle. Balbo Cesare

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Novelle - Balbo Cesare

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forza; ma ora me ne vuol poca più.» Fu sagramentato, e al terzo giorno gli si dava l'estrema unzione; trovammogli appesa al collo una treccia de' capelli di Maria: «Levatela» disse, «forse ho fatto male di continuar a portarla dopo il mio ritorno qua; questa, e questo libro di preghiere cristiane datomi da voi già, mi hanno accompagnato sempre, e tenuto caldo il cuore in Russia; prendetelo voi con le croci.» E si tirò il libretto e le croci di sotto il capezzale; mezza ora dopo perdè cognizione; e un'altra ora, e poi morì. Quest'è che m'ha fatto lasciar quel paese; e fui poscia da cappellano in quel regimento dove io aveva voluto far entrare Toniotto. «E Maria?» dissero alcuni degli ascoltanti. «Maria visse tranquilla altri quattr'anni; e or sono sei mesi, assistita da me, che là fui chiamato, e tornai per ciò, è morta in pace.»

      Detto questo, il maestro s'alzò e s'avviò al giardino! e gli uni dopo gli altri tutti gli uditori, che alcuni mi parvero commossi dalla storia; altri all'incontro dicevano che di queste cose, se ci si volesse badare, ne accadono tutti i dì, e questo non si chiamava nè storia nè novella. Ma il vero è che nessuno riprese la disputa di prima; nè era stato altro l'intento del buon maestro. Poco dopo, già non essendo più persona nel salotto, vi tornava egli, ed io l'udii che preludiava sul gravicembalo, e intuonava come una cantilena d'improvviso molto semplice, e poi incominciava a cantare a mezza voce, onde io m'accostai, e udii questa canzone:

      Tratto alle pugne oltre all'ignota Moscova

      Dell'italo guerrier tai fur gli accenti,

      Mentre ei forbiva al sorger del sol nordico

      L'armi lucenti.

      Nordico sol, fa, che da lungi splendano

      L'italiche armi in mezzo all'armi franche;

      Del sangue ostil oggi fien prime a tingersi,

      L'ultime stanche.

      Nordico sol, oggi per te dimentico

      Il chiaro italo sole e l'alma terra,

      Ove nodrito io fui, che parte Eridano,

      E l'Alpe serra.

      Ardito e lieto al giorno di battaglia

      Me veda il Franco, che pur me deride,

      Primo al giuoco, alla mensa, ai vani cantici

      Quando s'asside.

      Alle mense, alle danze il pregio tolgasi

      Il Franco pur: ma sull'arduo ridotto

      Me segua il Franco, quando il passo sgombrogli

      E l'oste ho rotto.

      Dimesso il capo, basso il crine ed umile

      Serba alla stalla l'Arabo destriero.

      Squilla la tromba? – Ei chiama co' suoi fremiti

      Il cavaliero.

      Quando scomposto stuolo indietro timido

      Fugge del soverchiante oste l'incontro;

      Ditelo, o duci, chi si ferma, e impavido

      Si volge contro?

      Quando la schiera spalle a spalle accumula

      Irta di ferro, ed i cavalli aspetta;

      Chi figge i piè, chi tiene il posto immobile,

      O l'arma stretta?

      Or ben, terso è l'acciar, la squadra s'ordina,

      Batte il tamburo, omai suona ogni tromba;

      Cresce il frastuono; odi, di guerra il fulmine

      Da lungi romba.

      Ve' come a passo egual marcia terribile

      Schiera cui duce guidar sembra morte.

      Ecco i verde-vestiti; or deh proteggavi

      L'itala sorte.

      Felici voi cui diede il ciel combattere

      Itali tutti l'un a l'altro accanto:

      Felici almen, cui resta d'una patria

      Il nome e il vanto.

      Col Franco, o col German misto, o col Belgico,

      Franco di nome io pur divido il letto.

      Ma invano, italo cuore invariabile

      Mi balza in petto.

      «Giorno verrà, dall'Alpi all'Adriatico,

      Una favella unirà Italia, e un nome;»

      Tu 'l promettevi c'hai le man, tu Italo,

      Entro sue chiome.

      Folle chi in te sperò; te il cielo vindice…

      Me chiama il duce, ecco la pugna ferve.

      Si pugni e vinca, e serva il mondo al perfido,

      Se Italia il serve.

      Finita che fu, ricominciò il maestro ad arpeggiare in varii toni minori, finchè alzandomi ei si avvide di me, ed io che ei non mi voleva bene d'averlo a suo malgrado ascoltato. Domandaigli pure se la canzone era sua, o forse di qualche ufficiale tornato da Mosca, o forse di Toniotto. Ma egli non me ne volle dir altro; ond'io credo che sia di lui. Perchè in gioventù so che fu pastore d'una colonia arcadica, sonettista, e schiccherator di versi sciolti nelle raccolte. Ora, colpa o grazie all'età, ei se ne vergogna e non vuol che si dica.

      LA BELLA ALDA

      Al tempo d'una delle discese de' Francesi per la combadi Susa, che qual sia non lo potrai accertare, avvenne, che rimasta a guardare il passo importante delle Chiuse una schiera d'uomini d'arme, questi, secondo il consueto di tutti gli uomini d'arme, invasori antichi e nuovi, e più dei distaccati e lasciati indietro, incominciarono in varii modi a taglieggiare ed opprimere il paese all'intorno. Benchè, essendo alleati del Duca e provveduti da lui d'ogni bisogna; ed avendo ordine da' proprii capi di vivere co' terrazzani come amici; e solendo poi i Francesi, a differenza di altre genti, e ad eccezione di alcuni scellerati che si trovano in tutte, essere ladri solamente per necessità, o tutt'al più per a tempo, e quando, come dicono essi medesimi, l'occasione fa il ladrone; certo i ladronecci erano men frequenti che non sarebbesi temuto; e se n'erano fatti alcuni da qualche mal soldato, e dalla gentaglia dell'esercito, per lo più anche erano da' cavalieri e da' capitani severamente castigati; e la riparazione sborsata o da essi, o dai delinquenti, o tavolta dal Duca. Ma se per soldati erano radi i loro peccati contro il settimo e il decimo comandamento di non pigliare e non desiderar la roba d'altri; tanto più frequenti, forza è pur confessarlo, erano quelli fatti contro il sesto e il nono, di non usurpare e non desiderare la donna altrui. È vizio antico e noto de' Francesi. Noto il famoso macello de' Vespri Siciliani al tempo di Carlo d'Angiò. Carlo VIII ne perdè il regno. A' tempi nostri ne durano vive le memorie, che i posteri cercheranno nelle storie, e forse nell'opuscolo de' Romani in Grecia, nelle belle canzoni milanesi del Porta e del Grossi, e nelle piemontesi del Calvo, e mille altre canzoni, anche troppe; chè gl'Italiani così d'accordo in cantare, ben avrebbero dovuto esserlo più in resistere. Come poi in tutte queste invasioni, così in quella di cui è la nostra istoria, i Francesi, che qualunque sia il merito personale di ciascuno di essi, ognuno se lo porta come in mano, e subito lo fa vedere, e per così dire lo spende e scialacqua in moneta piccola, dovunque arrivassero incominciavano a farsi ben volere; nè eran dimorati due o tre dì in una terra o in una casa che non paressero esservi da gran tempo; ed entravano a parte de' negozi e de' divertimenti domestici, e si facevano come della famiglia; e se non era di quella loro eterna frase del chez nous, che monta a ciò, a casa nostra si fa così, e si fa meglio che da voi; quasi che ognuno di essi sarebbe paruto nato e cresciuto della famiglia e del paese dove era arrivato poc'anzi. Ma che valeva? Tutto ciò era perfidia, e mentre cotestoro parevano aiutare, adulare, compiacere al padrone di casa, non ad altro miravano che alla padrona o alla padroncina, di cui insidiavano la fede e l'amore. Gran vantaggio almeno hanno sopra questi Francesi, e gran preferenza meritano gli altri invasori. I quali mostrandosi subito schiettamente e

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