I rossi e i neri, vol. 1. Barrili Anton Giulio

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I rossi e i neri, vol. 1 - Barrili Anton Giulio

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signora contessa! È una brutta sentenza, e soprattutto pronunziata senza ascoltare le parti, quella che voi infliggete ad un uomo il quale non si disponeva a dir altro che la verità. A me infatti sembra che gli angioli almeno ci siano.

      – E questo, – ripiccò sorridendo la contessa Matilde, – non è forse un complimento? —

      Lorenzo stette un tratto silenzioso e raccolto in sè medesimo, a guisa di chi vuole si ascolti attentamente quello che sta per dire; quindi si fece a parlare in tal modo:

      – Signora contessa, abbiatemi per iscusato, ve ne prego, se appunto la prima volta che ho la fortuna di parlare con voi, comincio a disputare come un accanito dialettico. Ma che cos'è infine un complimento?

      – Voi saprete assai meglio di me la definizione del vocabolo, signor Salvani; ma qualunque cosa esso sia, non potrete levargli il carattere di una frase esagerata.

      – E sia pure; – proseguì Lorenzo, – ma perchè si dice, questa frase esagerata? Una cagione riposta ci ha pure da essere. E che cosa sono, di grazia, le immagini e le metafore nello scrivere, se non modi svariati ed efficaci a colorire meglio un pensiero? Certamente non si potrà dir bella ad una brutta; ma si dicesse pure, non sarebbe esorbitanza di frase, sibbene una bugia addirittura, e l'uomo che la dicesse dovrebbe arrossire, temendo che fosse giustamente tolta in mala parte. Ora ditemi, signora contessa, arrossisco io forse per timore, nel dirvi, come faccio, che gli angioli ci sono, in questo vostro paradiso? —

      Qui cominciò tra quelle due persone che non si erano mai vedute, l'una delle quali non sapeva ancora per qual ragione fosse chiamata al cospetto dell'altra, una di quelle conversazioni, tessute a ghirigori fantastici, nelle quali non si dice nulla, o quasi, e tuttavia si lasciano intendere tante cose.

      Matilde ragionò di molto con lui; della sua solitaria dimora, fino a cui non giungeva il frastuono della città; del Leopardi, che ella leggeva con affetto indicibile, e di cui ella intendeva i concetti assai meglio che pel passato, quando l'animo suo non s'era anche educato alla scuola dei patimenti; del vivere ristretto e fastidioso di Genova; dei sereni piaceri della campagna, e di mille altre cose, vere o false, ma dette sempre con molta grazia e con un'aria di schietta semplicità da innamorare ognuno che fosse stato a sentirla.

      Potete dunque argomentare quale prova facesse sull'animo di Lorenzo. Assorto come era in una ebbrezza profonda, non le chiese, anzi dimenticò affatto di chiederle la cagione per cui essa lo aveva chiamato in casa sua, e si lasciava andare a discorrere di mille cose, come il marinaio addormentato che sogna la sua innamorata si lascia cullare nel suo burchiello, confidato alla cura delle onde tranquille.

      La contessa poi sapeva toccar quelle corde che gli andassero più a genio, e, come è virtù di molte donne, s'innalzava agevolmente al pari di lui, faceva suoi i pensieri del giovine e li metteva fuori in tal modo da far sembrare che ella non avesse mai pensato diverso.

      Erano le quattro dopo il meriggio, e quella benedetta conversazione non era anche finita. I quattro tocchi della campana si fecero udire in mezzo ad una di quelle tali pause che si riscontrano nel dialogo più vivo, come una radura che lascia veder l'orizzonte, nel fitto di una boscaglia.

      – Dio mio! le quattro! – esclamò la contessa. – Si dimentica il tempo in vostra compagnia, signor Salvani; e veramente mi duole di non avervi ancora parlato di quella tal faccenda per la quale vi avevo pregato di venire da me. Oggi intanto non sarebbe più tempo. Venite domani?

      – Se così vi aggrada, – rispose Lorenzo sollecito.

      – E se così aggrada a voi, – soggiunse la contessa.

      – Oh, di questo potete esser certa, signora. Non si parte da casa vostra senza portar via qualche cosa…

      – Qualche cosa?

      – Eh, sicuro; il desiderio di ritornarvi.

      – Se è così, tanto meglio; portatene via molto, signor Salvani; io non me ne lagnerò certamente. —

      Il nostro Lorenzo se ne tornò a casa col cervello scombussolato, senza pensare, senza intendere cosa alcuna, ma leggiero, leggiero come un uomo felice. I tristi pensieri lo assalsero dopo l'arco dell'Acquasola, quando fu per discendere in città. Gli risovvenne allora della sua vita senza speranza, della povertà che lo stringeva ai lati, cose tutte che egli sentiva doppiamente acerbe, poichè egli aveva veduto la donna da cui gli sarebbe stato dolce l'essere amato.

      IX

      Come Ercole filasse alla conocchia di Onfale, e come tutti gli uomini possono somigliare ad Ercole.

      La dimane il giovine fu puntuale al ritrovo, come potete argomentar di leggieri. Nella notte il suo letto solitario era stato visitato dagli alati messaggeri di Morfeo, i quali erano tutti intenti a raffigurargli una bionda, con la veste di color pavonazzo e la gorgieretta di mussolina a cannoncini insaldati. Il più bizzarro ricambio di pensieri, il più veloce viaggio nei giardini di Amatunta era stato fatto dal dormente, in compagnia della bionda consolatrice del suo sogno. Però non è a dire con quanta sollecitudine ansiosa egli facesse, all'ora istessa del giorno innanzi, la salita della palazzina Cisneri.

      Allorquando egli entrò nel salotto verde, vide la contessa Matilde seduta presso la finestra, con la matita tra le mani, che stava disegnando un fiore sopra un foglio di carta. Ella non indossava più la veste di color pavonazzo, ma un'altra di seta nera, con la vita foggiata per modo da lasciar le spalle nude ed il sommo del petto, su cui scendeva un camicino di mussolina ugualmente nera, lieve impedimento agli occhi di un profano riguardante. Intorno al collo si ravvolgeva, venendo ad incrociarsi sul petto, uno di que' tali arnesi di pelo di martora che hanno pigliato presso le donne il nome pauroso di un serpente, forse in omaggio a quella bestia che venne a capo di infinocchiare la loro progenitrice degnissima.

      La contessa poteva rimanere scollata, perchè il fuoco acceso nel camino manteneva nel salotto una tiepida temperatura. Acconciata in quel modo, aspettava la seconda visita di Lorenzo Salvani.

      Appena egli comparve, la contessa alzò il capo, piegandolo leggiadramente verso la spalla in modo da saettare il giovine con uno sguardo ad occhi semichiusi, e, con la muta eloquenza del più cortese sorriso, gli porse la mano.

      Lorenzo corse a stringere quella mano, e non contento di stringerla, chinò il capo a baciarla.

      Ella non fece alcun atto di meraviglia. È così poca cosa, ed ha una scusa così ragionevole nelle antiche consuetudini il baciare una mano, che la contessa Matilde poteva lasciarlo fare a suo modo, senza mestieri di simulare un atto di corruccio.

      – Siete venuto! – diss'ella, così per cominciare il discorso.

      – Potevate credere, signora contessa, – rispose Lorenzo, – che avessi tardato pure di un minuto?

      – Oh no! Voi siete un cortese cavaliere, e questo si sa. Pensavo anzitutto che le vostre faccende avrebbero potuto forse trattenervi, e quasi mi doleva di avervi costretto a regalarmi un'altra delle vostre ore preziose. —

      Un'ora! La contessa avrebbe potuto dir tre o quattro a dirittura, chè tante ne aveva passato accanto a lei, il giorno innanzi, il nostro Lorenzo. Ma questo era forse un modo di dire della contessa Matilde.

      – Non v'è negozio che tenga, – rispose il giovine, – innanzi ad un vostro invito, e mi pare di avervi già detto con che animo si parta da casa vostra. Ma che cosa stavate voi facendo, signora?

      – Oh, una cosa da nulla. Mio Dio! Temo che non m'abbiate a trovare un po' troppo leggiera, con queste frivolezze.

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