I rossi e i neri, vol. 1. Barrili Anton Giulio
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Tutte queste cose, sul finir di febbraio, sebbene mancassero i colori smaglianti della vegetazione primaverile, davano immagine di magnificenza principesca, e lasciavano argomentare che paradiso terrestre fosse la villa Vivaldi nei mesi di estate.
Il Pietrasanta, in quella che andavano girando per ogni luogo, aveva fatto amicizia col giardiniere, e ragionava con lui di tutte le belle cose che si presentavano alla loro ammirazione.
– Veda! – gli diceva il giardiniere, fermandosi presso una specie di querce e facendone notare la corteccia cedevole ma tenace, questo è l'albero del sughero, che è così raro dalle nostre parti.
– Buono per far turaccioli! – notò giudiziosamente il Pietrasanta. – E i sedili, che gli adornano il tronco, accanto a questa gran tavola rustica, che cosa significano?
– Ah! – rispose il giardiniere, con un piglio dottoresco, – questa è la __Corte d'Amore__.
– La Corte d'Amore! Che diamine di Corte è ella?
– È il luogo dove la signora marchesa viene a sedersi. Tutte le Vivaldi hanno sempre avuto il costume di venire a passare sotto quest'albero le ore calde della giornata. I miei vecchi hanno sempre veduto la medesima cosa; ed anche adesso, quando la signora marchesa è in campagna, ci sta tre o quattr'ore ogni giorno.
– Scusatemi, Giacomino, – disse il Pietrasanta, che già sapeva il nome del giardiniere, – ma non mi sembra poi una gran cosa da meritare un nome così bello e una così nobile preferenza.
– Oh, perchè lo vede così nudo. Ma nella buona stagione c'è tutto il verde dintorno; la signora marchesa poi fa rimettere a posto tanti altri sedili di maiolica, stendere un gran tappeto su questa tavola di lavagna, e una bella tenda fra gli alberi, per custodirsi meglio dai raggi del sole. Io poi ci porto dei fiori; la cameriera ci porta dei libri e il telaio da ricamo della marchesa; il servitore dei rinfreschi per tutti i signori che vengono qui a far conversazione con Sua Eccellenza.
– Ah! mi ricordo, – disse Pietrasanta, volgendosi ad Aloise, – che il piccolo Riario mi parlava di un certo ritrovo, dove si faceva crocchio intorno alla bella marchesa. La Corte di Amore! Il nome è bello, e probabilmente la presenza della signora farà bello anche il luogo.
– Ora, se le loro Signorie vogliono vedere la grotta…
– La grotta! C'è una grotta? Sicuro che vogliamo vederla.
– Va pure; – disse Aloise, – io non ti seguo.
– Perchè? Sei forse stanco?
– Sì, un po'; ma non te ne dar pensiero. Ti aspetterò qui seduto sull'erba, e tu mi porterai le novelle dell'antro muscoso.
– E delle stalattiti. Perchè, – soggiunse il Pietrasanta, volgendosi al giardiniere, – ci saranno anche le stalattiti; non è egli vero, Giacomino?
– L'ha da vedere, Vossignoria, che grotta! – rispose questi. – Non se ne trova una così bella, anco a farsela naturale.
– E voi dovete esserne tanto più superbo, – disse il Pietrasanta, – in quanto che nemmeno il Creatore, l'unico che se le possa far naturali, potrà superarvela. —
Il giardiniere si accorse di averla detta grossa, ma non sapeva come rimediarci. Però, tutto confuso, chiese perdono a Dio di quell'atto di superbia, e precedette il Pietrasanta nel fitto delle piante, per dove si andava alla grotta. Era un uomo dabbene e timorato di coscienza, il giardiniere dei Torre Vivaldi, e pensava con raccapriccio a quello che gli avrebbe potuto dire il padrone, se lo avesse inteso bestemmiare a quel modo.
Intanto Aloise, appena i due furono scomparsi, in cambio di sedersi sull'erba, siccome aveva detto di voler fare, andò a posarsi su d'uno di que' sedili di sasso, e precisamente su quello che era a' pie' dell'albero presso la tavola, piantando i gomiti sulla lavagna e rimanendo col capo chino tra le palme.
Il giovine stette in quella postura un bel tratto, pensando e sospirando; poi, come uomo che ha preso una deliberazione, si alzò ed andò per ogni lato a cercare. Che cosa cercava? Un coccio di maiolica, un mozzicone di lavagna, qualche arnese, insomma, da potergli servire per iscrivere su quella superficie levigata della tavola.
Trovò finalmente il fatto suo, e si pose con fanciullesca gravità a segnare un nome a lettere maiuscole, sulla lavagna. Il filo del coccio si corrodeva nello sfregamento, ma Aloise calcava sempre più forte, e tornava sulle lettere per modo da scavarle più profonde, sicchè non potessero più cancellarsi.
Il nome che egli andava cosiffattamente incidendo (i lettori si saranno già apposti) era quello di «Ginevra», della bella marchesa di Torre Vivaldi.
Ecco dunque posto in chiaro il segreto di Aloise. Il giovine marchese di Montalto amava quella gentildonna che nostri lettori non conoscono ancora se non per la bizzarra dipintura che ce ne ha fatto quel capo scarico del Pietrasanta.
Raccontiamo una cosa che parrà strana a molti, ma che è vera come l'istessa verità, e che taluni conosceranno a prova. L'amore di Aloise per la bella marchesa di Torre Vivaldi contava già sei anni di vita, e l'innamorato non aveva detta anche una parola alla donna de' suoi pensieri.
Appena sei anni innanzi Antoniotto Della Torre aveva tolto in moglie la bella Ginevra, ultimo rampollo dell'antica casata dei Vivaldi. Insieme con la mano della fanciulla, che era in un monastero a compiere la sua educazione, c'erano cinque o sei milioni di sostanza, e il patto che il marito assumesse il nome della famiglia, che si sarebbe estinto colla persona di Ginevra.
La giovinetta andò sposa al Della Torre, senza pure averlo veduto; ma lo aveva veduto il tutore, e bastava. Sono questi i matrimoni che da noi si dicono di __convenienza__, parola che vorrebbe dissimulare il tornaconto, e non ne viene a capo. Antoniotto era ricco; la Vivaldi era ricchissima, nobilissima e bellissima per giunta; laonde non è a dire se il tornaconto c'era, e perciò il matrimonio fu combinato alla spiccia, e la fanciulla uscì dalla cella solitaria del monastero per andar difilata alla stanza nuziale.
Per tutta Genova s'era fatto un gran ragionare di queste nozze, Antoniotto Della Torre era uomo di mezza età, di umor cupo ed ambizioso; ma in fin dei conti era nobile e ricco, e nessuno trovò a ridire sulla deliberazione del tutore, il quale, a dirvela in confidenza, in quella che concedeva la mano della sua pupilla ad uno de' suoi consorti, acconciava le sue faccende particolari, e tra l'altre, dando il capitale, non rendeva strettissimo conto dei frutti. Dice l'adagio che una mano lava l'altra, e tuttedue lavano il viso.
E bisognava aver veduto che nozze! Canzoni e sonetti ne furono scritti e stampati a dozzine. V'ebbe tra gli altri un poeta il quale, pigliando l'inspirazione dagli stemmi delle due famiglie, scrisse che un più ragionevole nodo non si sarebbe potuto stringere mai, trattandosi di un'aquila che ne «impalmava» un'altra. Immaginate che aquilotto avrebbe dovuto nascere da quelle __auspicatissime nozze__! E tuttavia non era nato un bel nulla, e i voti del poeta erano rimasti più sterili della sua fantasia, la quale almeno, se non de' suoi parti, poteva insuperbire delle sue sconciature.
Appena celebrate le nozze, gli sposi erano partiti per un lungo viaggio, siccome è debito di persone le quali intendono la dignità del loro stato, e possono mettere la loro ambizione nell'appendere il nido dei loro amori eterni all'alcova di un albergo parigino.