Il Libro Nero. Barrili Anton Giulio

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Il Libro Nero - Barrili Anton Giulio

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Benedicite, la ruggine è molto più cortese dama che voi non siate cavaliero. Ora, voi vedete, già venti volte, non una, avrei potuto passare, e nol fo, per non usare villania al vostro signore. Ma se egli non è malnato castellano, udrà i tre squilli di corno che si mandano alle porte della sua rocca. —

      Così parlò il pellegrino di Roma, e, posto mano al corno che gli pendeva da fianco, suonò con esso tre volte.

      – Misericordia! – esclamarono gli arcieri. – Questa è la tromba del giudizio universale.

      CAPITOLO II

Dove si legge della felicità di conte Folco, come fosse celebrata dal biondo Fiordaliso

      Al primo squillo di corno, quel tale squillo che avea fatti rimanere sospesi con le braccia in aria gli arcieri, conte Ugo stette egli pure sospeso, con la coppa d'oro alle labbra.

      – Un ospite! – esclamò egli, voltandosi alla brigata. – Sia il ben venuto a Roccamàla.

      E bevuto un sorso, mandò attorno la tazza, quella tazza d'oro lavorato con la quale i suoi antenati, da Ugo il negromante, fino a Ruberto il taciturno, avevano avuto costume di far le loro libazioni ospitali.

      – Messere, – disse Fiordaliso, – io mi penso che questo sconosciuto visitatore rimarrà un pezzo alla porta e morrà anche a ghiado, se aspetta che gli apra mastro Benedicite. —

      Colui che parlava in tal guisa era un giovine sui vent'anni, vestito di un farsetto azzurrognolo listato di bianco e di vermiglio, e con una zazzera bionda le cui ciocche scompigliate scendevano a nascondergli mezza la fronte e le guancie. Il viso roseo e la delicatezza dei contorni lo avrebbero fatto togliere agevolmente per una leggiadra donna travestita da paggio, se certi peli vani che ombreggiavano il labbro superiore e il basso delle guance, non avessero fatto manifesto che egli avea dritto a portare il nome mascolino di Fiordaliso, col quale era chiamato a Roccamàla, e conosciuto da tutte le graziose femmine della contèa, nel giro di venticinque miglia, ed anche più oltre.

      Il conte Ugo sorrise con aria affettuosa alle parole dell'adolescente.

      – Che vuoi dir tu, Fiordaliso?

      – Dico, messere, che con mastro Benedicite non si può uscir mai, quando s'è dentro, nè entrare, quando s'è fuori. Egli è sospettoso come una lepre, e mal per noi se gli somiglia san Pietro, o se va egli un giorno a far da portinaio in sua vece.

      – Per ora, – soggiunse il Conte, – e' bisognerà che se la tolga in pace e metta mano alle chiavi. Roccamàla non è un paradiso; ma essa non è mai stata chiusa a nessun viandante che domandasse ospizio per amor di Dio, o del valoroso barone san Giorgio che l'ha in guardia. I miei antichi furono gente melanconica e contegnosa, ma a questo debito non hanno fallito mai, e non lo dimentica di certo il mio vecchio strozziere, che è il cronista della famiglia.

      – Ah! gli è dunque un uomo di dottrina, il vostro Benedicite? – chiese Ansaldo di Leuca.

      – Altro ci è! Non parlo dei suoi testi latini, che n'ha sempre una serqua tra i denti, parati ad uscirne fuori. Ma e' vi sa dire quando e come fu murato il castello, e poi giù giù una infilzata di storielle, che a udirne la metà v'intronerebbero il capo per un giorno e non vi lascerebbero più dormire la notte. Ma lo so ben io, che da bambino gli ero sempre sulle ginocchia e pendevo dalle sue labbra; lo stuzzicavo sempre a narrarne di nuove, e poi non c'era più verso che potessi pigliar sonno, tante erano le immagini del tempo antico, che scendevano a popolare la solitudine della mia camera. Ma questo ospite non giunge…

      – Io ve l'ho detto, messere; mastro Benedicite vorrà sapere anzitutto il nome, la patria e la condizione, se scapolo o ammogliato, e Dio sa quant'altre cose di quella fatta.

      – Se egli fa ciò, vuol levarmi il mio buon nome, e noi dovremo dargli una strapazzata, appena ei venga quassù. Messeri, questo vin di Cipro… Ma che diamine fa egli, quel vecchio scimunito? Ho io ad esser chiamato per cagion sua il più tristo cavaliero d'Italia?

      Questa sfuriata del conte Ugo era cagionata, siccome i lettori hanno indovinato per fermo, dai tre squilli di corno che metteva il forastiere, stanco di attendere e di piatire con mastro Benedicite.

      – Al nome di Dio! – esclamò Ansaldo di Leuca. – Questi è uomo di vaglia.

      – E quel vecchio pazzo non se ne dà per inteso! Suvvia, Fiordaliso, scendi tu alla porta, e vedi che cos'è egli mai che ha intorpidite le gambe al nostro falconiere. —

      Fiordaliso corse con quella baldanza che è propria de' giovani e che a lui era accresciuta dieci cotanti dalla amorevolezza del suo signore. Ma egli era appena sulle scale, che vide giungere ansante, trafelato, mastro Benedicite; laonde, aspettatolo sul pianerottolo, rientrò con esso lui nella sala, con una curiosità in corpo da lasciarsi indietro una dozzina di femmine. Intendiamoci bene, di femmine e non di donne, poichè tra queste e quelle, sebbene non ammessa dal vocabolario, corre una differenza grandissima.

      – Orbene, mastro Benedicite, – gridò conte Ugo, appena ebbe scorto da lunge lo strozziere, – e come va che i forastieri chiedono ospitalità e non l'ottengono, a Roccamàla? —

      Senonchè, fatto questo rimprovero in forma di domanda, egli vide la faccia dello strozziere, e, buono com'era, tosto raddolcì la sua voce per dirgli:

      – Ma che è, Benedicite? Che cosa sono quegli occhi stralunati, e quel viso smorto?

      – Egli è, messer lo Conte… – balbettò il vecchio – egli è… ho calato il ponte… cioè, l'avevo alzato e poi lo rinvenni calato… Un pellegrino, che afferma giunger da Roma… e mi pare che venga piuttosto da casa il diavolo…

      – Potrebb'esser tutt'uno! – esclamò Ansaldo di Leuca.

      – Sarà come voi dite, messere Ansaldo; ma io penso che questo forastiero del malanno… insomma, io so quel che mi dico…

      – Sì, sì! – interruppe ridendo il conte Ugo, dopo aver fatto cenno degli occhi a Fiordaliso, il quale fu sollecito ad uscire da capo. – Ma voi avete a sapere eziandio, mastro Benedicite, che il nostro castello, anco a voler partecipare alle vostre superstizioni, non ha paura del diavolo. Qui c'è stato parecchi giorni il santissimo Bernardo di Chiaravalle, quando Roccamàla era convento del suo ordine, e la benedizione di un tanto uomo non basta ella a raffidarvi?

      – Essa, con vostra licenza, messer lo Conte, non ha impedito…

      – Ah, ah! vecchie storielle da raccontarsi quest'inverno accanto al fuoco. Ma dove lasciate voi, uomo di salda memoria, le benedizioni di due papi? Dove la visita del vescovo Gualberto? Macte animo, generose senex! vi dirò io, imitandovi; noi siamo armati di bolle, d'indulgenze e d'acqua santa, per ricevere anco una visita dello spirito maligno. Portae inferi… come dite voi, che io non lo ricordo più, il vostro latino?

      – Non praevalebunt, messer lo Conte; e così Dio v'ascolti! – soggiunse mastro Benedicite, che, vedendosi là, al cospetto del suo signore e di tanti allegri cavalieri, incominciava a stupirsi d'avere avuto paura.

      – Ben venga il diavolo, se pure è egli che giunge! – disse Ansaldo di Leuca.

      – Egli è alla perfine un cavaliero di alto legnaggio, sebbene caduto in disgrazia del più possente barone del mondo, – soggiunse Enrico Corradengo, – e noi ci terremo ad onore di averlo commensale.

      – Ecco un forastiero che fa parlar molto di sè, – conchiuse il conte Ugo, – e

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