Novelle e riviste drammatiche. Arrigo Boito
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– Educateli – rispose una signora – e il loro angolo facciale si allargherà. Ma perché ciò avvenga non opprimeteli, schiavi, con la vostra tirannia, liberi, col vostro disprezzo. Aprite loro le vostre case, ammetteteli alle vostre tavole, ai vostri convegni, alle vostre scuole, stendete loro la mano.
– Consumai la mia vita a ciò, signora. Io sono una specie di Diogene del Nuovo Mondo: cerco l'uomo negro, ma finora non trovai che la bestia.
In questo momento comparve sull'uscio un cameriere con una gran lampada accesa; tutta la sala fu rischiarata in un attimo. Allora si vide in un angolo, seduto, immobile, l'Oncle Tom. Nessuno sapeva ch'egli fosse nella sala, l'oscurità l'aveva nascosto; quando tutti lo scorsero fecesi un lungo silenzio. Gli sguardi degli astanti passavano dal negro all'Americano. L'Americano s'alzò, parlò all'orecchio del cameriere e tornò a sedersi. Il silenzio continuava. Il cameriere rientrò con una bottiglia di Xeres e due bicchieri. L'Americano riempì fino all'orlo i due bicchieri, ne prese uno in mano; il cameriere passò coll'altro dal negro.
– Signore, alla vostra salute! – disse l'Americano al negro, alzando il bicchiere verso di lui come insegna il rito della tavola inglese.
– Grazie, signore; alla vostra! – rispose il negro e bevettero tutti e due. Nell'accento del negro v'era una gentilezza tenera e timida e una grande mestizia. Dopo quelle quattro parole si rituffò nel suo silenzio, s'alzò, prese dal tavolo de' giornali l'ultimo numero del Times e lesse con viva attenzione per dieci minuti.
L'Americano, che cercava un pretesto per ritentare il dialogo, si diresse verso l'angolo dove leggeva Tom, e gli disse con delicata cortesia: – Quel giornale non ha nulla di gaio per voi, signore; potrei proporvi una distrazione qualunque?
Il negro cessò di leggere e s'alzò con dignitoso rispetto davanti al suo interlocutore.
– Intanto permettete ch'io vi stringa la mano, – riprese l'altro; – mi chiamo sir Giorgio Anderssen. Posso offrirvi un'avana?
– Grazie, no; il fumo mi fa male.
Allora l'americano, gettando lo zigaro che teneva fra le labbra, tornò a dimandare:
– Posso proporvi una partita al bigliardo?
– Non conosco quel giuoco; vi ringrazio, signore.
– Posso proporvi una partita agli scacchi?
Il negro titubò, poi rispose: – Sì, questa l'accetto volentieri, – e s'avviarono ad un piccolo tavolo da giuoco che stava all'angolo opposto della sala; presero due sedie, si sedettero l'uno di fronte all'altro. L'Americano gettò i pezzi e le pedine sul panno verde del tavolino per distribuirli ordinatamente sulla scacchiera. La scacchiera era un'arnese qualunque a quadrati di legno grossamente intarsiati, ma gli scacchi erano dei veri oggetti d'arte. I pezzi bianchi erano d'avorio finissimo, i neri d'ebano, il re e la regina bianchi portavano in testa una corona d'oro, il re nero e la regina nera una corona d'argento, le quattro torri erano sostenute da quattro elefanti come nelle primitive scacchiere persiane. Il lavoro sottile di questi scacchi li riduceva fragilissimi. All'urto che presero quando l'Americano li riversò sul tavolo, l'alfiere dei neri si ruppe.
– Peccato! – disse Tom.
– È nulla, – rispose l'altro; – s'aggiusta subito. – E s'alzò, andò allo scrittoio, accese una candela, pigliò un pezzo di ceralacca rossa, la riscaldò, intonacò alla meglio i due frammenti dell'alfiere, li ricongiunse e riportò al compagno lo scacco aggiustato. Poi disse ridendo: – Eccolo! se si potesse riattaccare così la testa agli uomini!
– Oggi a Monklands molti avrebbero bisogno di ciò, – rispose il negro sorridendo tetramente. L'accento di questa frase destò nell'Americano un'impressione di stupore, di compassione, di offesa, di ribrezzo.
Tom continuò: – Con che colore giuocate, signore?
– Coll'uno o coll'altro senza predilezione.
– Se ciò v'è indifferente, pigliamo ciascuno il nostro. A me i neri, se permettete.
– Ed a me i bianchi. Benissimo, – e si misero a disporre i pezzi sulle loro case. S'aiutavano scambievolmente con eguale cavalleria nell'ordinamento de' loro scacchi; il negro, quando gli capitava, metteva a posto una pedina bianca, il bianco ricambiava la cortesia mettendo al loro posto alcuni pezzi neri. Quando furono tutti e due schierati, Anderssen disse: – Vi avverto che sono piuttosto forte; potrei chiedere di darvi il vantaggio di qualche pezzo, d'una torre, per esempio?
– No.
– D'un cavallo?
– Nemmeno. Mi piacciono le armi eguali s'anco è disuguale la forza. Apprezzo la vostra delicatezza, ma preferisco giuocare senza vantaggi di sorta.
– E sia. A voi il primo tratto.
– Alla sorte, – e il negro chiuse in un pugno una pedina nera e nell'altro pugno una pedina bianca; poi diede a indovinare all'Americano.
– Questo.
– Ai bianchi il primo tratto. Incominciamo.
Intanto le persone che stavano nella sala si erano avvicinate una ad una verso il tavolo da giuoco.
Fra quelle persone v'era chi conosceva il nome di Giorgio Anderssen come quello d'uno fra i più celebri giuocatori a scacchi d'America e costoro prendevano un particolare interessamento alla scena che stava per incominciare. Giorgio Anderssen, originario d'una nobile famiglia inglese emigrata a Washington, si era fatto quasi milionario sulla scacchiera. Giovane ancora, aveva già vinto Harwitz, Hampe, Szen e tutti i più sapienti giuocatori dell'epoca. Questo era l'uomo che si misurava col povero Tom.
Prima che Anderssen avesse avuto tempo di muovere la prima pedina, il negro prese dalla sua destra la candela che era rimasta accesa sul tavolo da giuoco e la collocò a sinistra. Anderssen notò quel movimento e pensò meravigliato: – Quest'uomo ha certamente letto la Repeticio de Arte de Axedre di Lucena e segue il precetto che dice: "Se giocate la sera al lume d'una candela, mettetela a sinistra; i vostri occhi saranno meno offesi dalla luce ed avrete già un grande vantaggio a fronte dell'avversario" – ; e pensando ciò, prese i suoi occhiali affumicati e se li piantò sul naso; poi staccò la prima mossa. Indi si volse a coloro che s'erano fatti attorno e disse con gaia disinvoltura: – I primi movimenti del giuoco degli scacchi sono come le prime parole d'una conversazione, s'assomigliano sempre; eccoli: pedina bianca, due passi; pedina nera, due passi; poi gambito di re, ecc. ecc. ecc. – E così, ciarlando sbadatamente, fece la seconda mossa e mise avanti due passi la pedina dell'alfiere di re, aspettando che l'avversario gliela prendesse colla sua. Il negro non prese la pedina, ma invece con una mossa meno regolare difese la pedina propria sollevando il suo alfiere di re sulla terza casa della regina. Anderssen rimase un po' sorpreso anche di ciò e pensò: – Quest'uomo risparmia le pedine; segue il sistema di Philidor che le chiamava l'anima del giuoco.
Seguirono ancora cinque o sei mosse d'apertura; i due giuocatori si esploravano l'un l'altro come due eserciti che stanno per attaccarsi, come due boxeurs che si squadrano prima della lotta. L'Americano, abituato alle vittorie, non temeva menomamente il suo antagonista; sapeva inoltre quanto l'intelletto d'un negro, per educato che fosse, poteva fievolmente competere con quello d'un bianco e tanto meno con