Novelle e riviste drammatiche. Arrigo Boito

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Novelle e riviste drammatiche - Arrigo Boito

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che creò le alte montagne; l'incenso che sale da loco basso e nascosto offende le nari dell'Onnipossente. Dio è l'eterno orgoglio che regge la vita dell'Universo. L'umiltà è la virtù delle turbe. Gesù sta ben ritto davanti alla plebe prosternata, e chi vuol favellare a Filippo II, foss'anche un duca di Medina Celi, dee piegare il ginocchio. Nessuno può essere più alto del re…"

      – E intanto il sole saliva dietro la montagna che era di fronte a Don

      Sancio, ed irradiava le vette che gli stavano sul capo. Il nonno misurò collo sguardo e colla mente il corso della luce e sclamò:

      "Ancora un'ora di vita!"

      – Poi si raccolse nei suoi pensieri.

      – Dopo mezz'ora si scosse dicendo: "È tempo ch'io mi confessi". Allora si fece il segno della croce, si curvò col capo sull'abisso profondo che si squarciava sotto ai suoi piedi, e, incurvando le mani alla bocca in forma di portavoce, mugghiò verso il precipizio: "Tu sarai il mio confessore". La sua parola si perdeva nel burrone, squillante come la nota d'un corno da caccia. La voragine, co' suoi tortuosi meandri, pareva un immenso orecchio di tenebra su cui piombavano queste voci:

      "Ho tre peccati sull'anima. Eccoli:

      "Primo peccato: quando avevo vent'anni, a Zamora salvai dal rogo tre infedeli, un moro, un ebreo e un luterano.

      "Secondo peccato: quando avevo cinquant'anni, salendo a questi dirupi, allontanai dalla mia solitudine e dalla mia povertà tutti i miei vecchi servi, tutti i miei santi preti e tutte le mie povere ancelle.

      "Terzo peccato: ieri, vigilia della mia morte, ho ucciso un'aquila reale sul suo nido".

      – E si levò come un albero in nave.

      – Io allora feci un passo come per varcare il ponte che ci divideva;

      Don Sancio me lo vietò, gridando:

      "Fermati, non avvicinarti, non toccarmi; mi faresti cader vivo nel precipizio".

      – Il sole continuava a salire ed il suo raggio a discendere sui macigni del monte, attraversando una rupe spaccata nel mezzo come una gigantesca merlatura guelfa.

      – A un tratto il sole raddoppiò di splendore; c'era la distanza d'un palmo dalla sua luce ai capelli del nonno. Il nonno pareva assorto in contemplazione, ritto sui piedi e appoggiato alla roccia; fu un baleno quando il suo crine canuto al primo tocco della luce diventò d'argento. Il sole sembrava un arciere appostato dietro la rupe spaccata come dietro una feritoia; l'arciere appuntava lentamente il suo arco verso le pupille del nonno; una saettata di luce vibrò sugli occhi di Don Sancio. Il sole e il vegliardo si fissarono per un attimo come due rivali. La freccia era scattata; Don Sancio era morto. Il sole lo aveva fulminato; pure non cadde e stette ritto fino a meriggio. Mentre voi sellavate a Salamanca il vostro caval sauro, il vento urtò il povero nonno, che precipitò nell'abisso.

      – Pace all'anima di Don Sancio, – rispose Estebano; domani scenderò nel precipizio, raccoglierò la salma veneranda e la porterò nel chiostro di Sant'Isidoro, dove dormono tutti i monarchi di Leone.

      Elisenda soggiunse: —Amen.

      III

      I due cugini, così parlando, camminavano lentamente fra gli oscuri colonnati del castello. L'uniforme pestio degli sproni d'Estebano accompagnava lungo i marmi del cortile il fiero racconto d'Elisenda; tutto intorno era silenzio. Intanto la luna alzatasi splendeva già sui monti e sui tetti; una piccola stella le vagava d'accanto e pareva una lagrima di luce.

      Estebano mormorò: – La luna piange! – e i due giovanetti s'arrestarono immobili a guardarla, mentr'essa benignamente li inondava di raggi. Allora comparve illuminato e purissimo il viso della fanciulla.

      A fermare col pensiero la tenuissima gradazione ideale che esisteva fra le fattezze e le anime di quei due cugini, simigliantisi come due fratelli, non troviamo altra imagine fuor che questa:

      Estebano era un fiore vivace con un profumo gentile;

      Elisenda era un fiore gentile con un profumo vivace.

      Il gherofano e la viola avevano fra essi scambiato l'olezzo, e per ridonarselo entrambi era forza che l'uno penetrasse nell'essenza dell'altra. Ogni armonia ed ogni soavità sembrava assorta in quella coppia adolescente. Appariva fra essi di vario appena quel tanto che è indispensabile al simpatico accordo delle cose create. Del resto erano in tutto l'identica ispirazione di Dio tentata su due sessi diversi, Estebano la forma virile ed Elisenda la forma femminea dello stesso divino concetto. Essi si assomigliavano come tutti gli angeli si assomigliano. Certo nelle loro vene scorreva infuso l'azzurro del cielo tanto essi apparivano eterei. L'orgogliosa frase castigliana, sangre azul, colla quale si fregia tuttora l'antichissima nobiltà spagnuola anteriore alla invasione dei saraceni, realizzavasi idealmente nei due ultimi germogli dei Sang-Real.

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