Novelle e riviste drammatiche. Arrigo Boito

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Novelle e riviste drammatiche - Arrigo Boito

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La faccia del negro brillava d'uno splendore di giubilo. Anderssen, nella foga della caccia al pezzo fatale, aveva dimenticato la pedina nera che stava sulla penultima casa dei bianchi alla sua destra. Quella pedina era là già da quattro ore ed egli ne aveva sempre differita la condanna. Quando Anderssen vide quella gran gioia sul volto del negro, tremò; abbassò con rapida violenza gli occhi sulla scacchiera.

      Tom aveva già fatta la mossa. La pedina era passata regina? No. La pedina era passata alfiere, e già l'alfiere segnato, l'alfiere nero, l'alfiere insanguinato, era risorto ed aveva dato scacco al re bianco. Il negro guardò alla sua volta con orgoglio la scacchiera. Anderssen stette ancora un minuto secondo attonito: il suo re era offeso obliquamente per tutta la diagonale nera del diagramma; da un lato l'altro re gli chiudeva il riparo, dall'altro lato era inceppato da una sua stessa pedina. Il colpo era mirabile! Scaccomatto!

      Tom contemplava estatico la sua vittoria.

      Giorgio Anderssen spiccò un salto, corse al bersaglio, afferrò la pistola, sparò.

      Nello stesso momento Tom cadde per terra. La palla l'aveva colpito alla testa, un filo di sangue gli scorreva sul volto nero, e colando giù per la guancia, gli tingeva di rosso la gola ed il collo. Anderssen rivide in quest'uomo disteso a terra l'alfiere nero che lo aveva vinto.

      Tom agonizzando pronunciò queste parole: – Gall-Ruck è salvo… Dio protegge i negri… – e morì.

      Due ore dopo il cameriere che entrò nella sala per dar ordine ai mobili, trovò il cadavere del negro per terra e lo scaccomatto sul tavolo.

      Giorgio Anderssen era fuggito.

      Venti giorni dopo arrivava a New-York, e là incalzato dai rimorsi, si era costituito prigioniero e denunciato come assassino di Tom.

      Il Tribunale lo assolse, prima perché l'assassinato non era che un negro e perché non poteva sussistere l'accusa di omicidio premeditato; poi perché il celebre Giorgio Anderssen si era denunciato da sé, infine perché si era scoperto nelle indagini giudiziarie che il negro ucciso era fratello di un certo Gall-Ruck che aveva fomentata l'ultima sollevazione di schiavi nelle colonie inglesi, quel Gall-Ruck che fu sempre inseguito e non si potè mai trovare.

      Anderssen rientrò nelle sue terre col rimorso nel cuore non alleggerito dalla più tenue condanna.

      Dopo la catastrofe che raccontammo giuocò ancora a scacchi, ma non vinse più. Quando si accingeva a giuocare, l'alfier nero si mutava in fantasma. Tom era sulla scacchiera! Anderssen perdé al giuoco degli scacchi tutte le ricchezze che con quel giuoco aveva guadagnate.

      In questi ultimi anni povero, abbandonato da tutti, deriso, pazzo, camminava per le vie di New-York facendo sui marmi del lastricato tutti i movimenti degli scacchi, ora saltando come un cavallo, ora correndo dritto come una torre, ora girando di qua, di là, avanti e indietro come un re e fuggendo ad ogni negro che incontrava.

      Non so s'egli viva ancora.

      IBERIA

      I

      L'epoca di questo fatto ci è ignota; il paese è la Spagna.

      Un cavallo corre furiosamente per campi deserti, un cavaliere lo sprona, nero l'uno, nero l'altro; ravvolti nelle pieghe d'un immenso mantello, sembrano una nuvola d'uragano che voli, radendo la terra, col fulmine in grembo. Il cavaliere nasconde la sua faccia in un ampio cappuccio. Sotto quella tenebrosa coperta si possono supporre tutte le schiatte umane di tutti i tempi, lo spagnuolo, il saraceno, l'hidalgo; la corazza di ferro del quattrocento, il giustacuore di cuoio del cinquecento, la giubba di velluto del seicento vi si potrebbero parimenti celare. Quel fosco mantello è una larva che maschera un uomo e un secolo. Alla oscurità delle vesti, la vertigine della corsa s'aggiunge per fare più inafferrabile ancora quel mistero volante.

      Veduto da lungi, il cavallo disegna nel vuoto colla curva delle zampe balzanti un arco d'aereo ponte che si ripete sterminatamente per la campagna. Lo scalpito metallico de' ferri scande sul terreno un ritmo stringato e preciso come i trochei di Pindaro. Quel cavallo ha il volo e il metro dell'ode. I pioppi sfilano in processione sotto gli occhi del cavaliero e le loro fronde, smosse dalla brezza del vespro, rendono suono d'applausi lontani.

      Chi è quel fuggiasco? In che secolo vibrarono i palpiti di quella corsa? nel grande oceano delle ore quali furono i minuti marcati da quel galoppo furente?

      A che giova saper la cifra del tempo!?

      Il cuore non muta, la terra non si trasforma per variar di secoli e di storia. Regni in Granata l'Abenceragio o Filippo II, domini sulla Spagna intera il fanatismo del turbante o della croce, vigili sul trono di Madrid il genio di Carlo V o vi dorma l'idiotismo di Carlo II, che importa ciò al trovator di romanze e al monte dell'Estremadura? L'uno canterà sempre le sue albe sotto il terrazzo della dama sua, l'altro coronerà sempre di fiori la cima delle sue antiche palme. Ciò solo che sta fra l'uomo e la natura appar mutabile: leggi, costumi, scienze. Un divino impulso spinge codeste labili forme verso un perenne moto d'ascensione; ma né le sante virtù del cuore ponno farsi più sante, né le belle virtù del creato ponno farsi più belle.

      La storia che raccontiamo è l'eterna storia dell'amore nell'eterno paese della poesia; non mettiamo date all'eternità.

      Il cavallo non s'arresta, non s'allenta mai. Tutte le fiumane di Leone e di Castiglia passarono già sotto il suo volo; d'un balzo varca l'Esla, d'un altro balzo l'Orbigo, d'un altro balzo la Duera; pure, giunto presso gli orli della Pisurga, esita, ma l'uomo che lo cavalca, implacabile, feroce, gli conficca gli sproni ne' fianchi, alcune goccie di sangue cadono sulla riva, il puledro si dibatte fra le ginocchia del cavaliero, spicca un salto portentoso, e la Pisurga è varcata ed è ripresa la fuga, e passa Valadolid e passa Zamora e si sprofonda nelle più selvaggie regioni dell'Estremadura. La linea del suo viaggio parte da Salamanca e va alla montagna. Ogni suo sbalzo divora dieci cubiti di terreno, la sua unghia ferrata ripete sul suolo quel gesto nervoso che fa la mano di chi sfoglia rapidamente un libro e getta pagina su pagina. Così quel cavallo scaglia dietro di sé trionfalmente le leghe percorse.

      Il cavaliere si volge con orgogliosa movenza verso la propria ombra che il sole tramontando profila per terra; la vede disegnarsi lunga lunga e incurvarsi leggiera in un vano del colle, simile alle figure bizantine delle alte cupole orientali. Davanti ogni croce che incontra s'inchina devoto fino a toccar le briglie col capo. E viaggia. Senza questi segni manifesti di adorazione cattolica, ei si direbbe un evaso dai roghi del Sant'Ufficio che provò già i primi lambimenti del fuoco.

      La notte sale sulla montagna e il bruno cavallo con essa. Le due Castiglie s'addormentano nel buio senza neanche un auto-da-fé per fiaccola notturna.

      Un soffio di vento fa cadere il cappuccio sulle spalle del cavaliero, e il cavaliero schiude il suo volto alla limpidezza del cielo. È un giovanetto bello di bellezza ideale, biondo come un bambino e abbronzito come un guerriero. Gli arcangeli che pellegrinavano sulle sabbie della Palestina ai primi anni di Cristo, dovevano risalire l'azzurro abbronziti così. Ed egli aveva dell'arcangelo anche la vaga età, come la ideava Murillo, errante fra i quindici e i dieciott'anni. Al pudico ceruleo degli occhi si avrebbe detto quindici, al fiero congiungimento delle labbra si avrebbe detto dieciotto. Egli correva ancora, benché il sentiero salisse erto e selvoso.

      La notte s'avanzava e il bel cavaliero tornava a nascondere il suo viso nella folta penombra, il suo viso apparso come meteora, un istante, fra i fuggenti riverberi del crepuscolo. Giunto a una più erta salita, scende di cavallo e cammina. Alla foga quasi paurosa è succeduta una più paurosa lentezza. Il giovanetto fa passi radi, brevi e tremebondi; il suo cavallo affranto lo segue.

      Giunto a mezzo del monte incomincia a

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