Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 10. Edward Gibbon

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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 10 - Edward Gibbon

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Sollecitò gli amici a porsi in salvo con pronta fuga, i quali con voce unanime ricusarono d'abbandonare l'amato padrone, o di sopravvivergli; ed egli ne rafforzò il coraggio con fervida orazione, e colla promessa del paradiso. Nella mattina di quel giorno funesto, Hosein salì a cavallo, prese in una mano la spada, il Corano nell'altra: i generosi martiri della sua causa erano solo in numero di trentadue cavalieri, e di quaranta fanti; ma fortificato avevano i fianchi e il tergo colle corde delle lor tende, e s'erano muniti con una fossa profonda piena di fascine accese all'usanza degli Arabi. Si avanzarono mal volentieri i nemici, e un de' loro Capi, che disertò con trenta soldati, venne a dividere con Hosein le angosce d'una morte inevitabile. Nelle mischie corpo a corpo, o ne' singolari conflitti, la disperazione rendette invincibili i Fatimiti; ma la moltitudine che gli accerchiava li coperse d'un nembo di dardi: cavalli ed uomini caddero successivamente uccisi: le due parti assentirono una tregua d'un istante per l'ora della preghiera, e in fine terminò la battaglia colla morte dell'ultimo compagno di Hosein. Solo egli allora, rifinito dalla fatica, e piagato, si assise all'ingresso della sua tenda. Mentre stava bevendo poche stille d'acqua per rinfrescarsi, fu colto da un dardo in bocca: e rimasero uccisi fra le sue braccia il figlio e il nipote, giovanetti di rara avvenenza. Sollevò al cielo le mani coperte di sangue, e orò pe' viventi e pe' morti. Escì sua sorella della tenda in un accesso di disperazione, scongiurando il generale de' Cufiani perchè non lasciasse svenare Hosein in sua presenza: e i più arditi fra i suoi guerrieri retrocessero da ogni lato all'arrivo dell'eroe moribondo, che offriva il collo al lor ferro. Lo spietato Shamer, nome abbominato da' fedeli, li rimbrottò di viltà, e il nepote di Maometto cadde trafitto da trentatre colpi di lancia e di sciabola. Ne calpestarono i Barbari il corpo, e portarono la testa al castello di Cufa, ove l'inumano Obeidollah gli percosse colla canna la bocca. «Ahi! esclamò un vecchio Musulmano, su quelle labbra ho veduto le labbra dell'appostolo di Dio». Dopo tanti secoli, e in un clima sì diverso, una scena sì tragica dee movere a pietà il più freddo lettore197. Quanto a' Persiani, ricorrendo la festa di questo martire, celebrata ogni anno quando visitar sogliono in pellegrinaggio la sua tomba, s'abbandonano a tutta la frenesia del dolore e dello sdegno198.

      Allora che le sorelle e i figli d'Alì carichi di catene furono tratti appiè del trono di Damasco, era stimolato il Califfo a estirpare una razza amata dal popolo, da lui offesa talmente da non isperare riconciliazione giammai; ma piacque a Yezid l'attenersi a più miti consigli, e quella sventurata famiglia fu rimandata in modo onorevole a Medina, perchè mescesse le sue lagrime a quello de' parenti. La gloria del martirio vinse il diritto di primogenitura; laonde i dodici Imani199, o pontefici, della religione persiana sono Alì, Hassan, Hosein e i discendenti di questo sino alla nona generazione. Senz'armi, senza tesori, senza sudditi, ottennero successivamente la venerazione del popolo, e suscitarono la gelosia dei Califfi. I devoti della lor Setta continuano a visitarne le tombe sia alla Mecca o a Medina, su le rive dell'Eufrate o nella provincia del Khorasan. Soventi volte il nome loro ha dato pretesto di sedizione o di guerra civile; ma quegli augusti santi ebbero in dispregio le vanità del Mondo, si sottomisero al volere di Dio e all'ingiustizia degli uomini, e consacrarono l'innocente vita allo studio e alla pratica della religione. Il duodecimo ed ultimo degl'Imani, distinto dal soprannome di Mahadi, o Guida, visse più solitario, e fu ancora più religioso de' predecessori. Celossi in una spelonca presso Bagdad, nè si sa l'epoca e il luogo della sua morte: dicesi da' devoti alla sua memoria che non morì, e che comparirà prima del giorno del Giudizio a distruggere la tirannide di Dejal o Anticristo200. Nello spazio di due o tre secoli era cresciuta la posterità di Abbas, zio di Maometto, sino a trentatremila persone201: può nella proporzione stessa essersi moltiplicata la razza d'Alì: superiore al primario e al più gran principe era l'ultimo individuo di quella famiglia, e i più insigni di loro avevansi per più perfetti degli angeli; ma la disgrazia della lor situazione, e la vastità dell'impero Musulmano aprivano una larga strada agli astuti o audaci impostori, che cercavano di acquistarsi un diritto con qualche preteso vincolo di parentela con quel santo legnaggio. Questo titolo vago ed equivoco ha consacrato lo scettro degli Almohadi in Ispagna, in Affrica, de' Fatimiti in Egitto ed in Siria202, de' Soldani dell'Yemen e de' Soffì della Persia203. Era pericoloso consiglio sotto il lor regno il contestarne la nascita; Moez, uno de' Califfi fatimiti, a cui si faceva una dimanda imprudente, rispose cavando la scimitarra: «Questa è la mia genealogia:» e gettando una manciata di monete d'oro a' soldati: «questa è la mia famiglia e i miei figli.» I veri o supposti discendenti di Maometto e d'Alì, tanto principi che dottori, nobili, mercadanti, mendichi, sono onorati co' titoli di Sheiks, di Sheriffi o d'Emiri. Nell'impero Ottomano si distinguono dagli altri per un turbante verde: hanno pensione dall'erario imperiale, non sono giudicati che dal loro Capo, e per quanto esser possano umiliati dalla fortuna, o dall'indole loro, sostengono sempre con fasto il titolo de' lor natali. Una famiglia di trecento persone, posterità pura e ortodossa del Califfo Hassan, s'è mantenuta senza macchia, e senza sospetto, nelle sante città della Mecca e di Medina, e con tutte le rivoluzioni di dodici secoli ha sempre avuta la custodia del tempio, e la sovranità nella patria degli avi suoi. Basterebbe la gloria o il merito di Maometto a nobilitare una razza di plebei, e il sangue sì antico de' Coreishiti vince la maestà d'assai più recente degli altri re della Terra204.

      I talenti di Maometto son degni certamente dei nostri elogi, ma troppo si sono ammirati per avventura i trionfi che ottennero. È cosa da stupir tanto, se una folla di proseliti abbiano abbracciato la dottrina, e partecipato alle passioni d'un eloquente fanatico? Dal tempo degli appostoli sino a quello della riforma, tutti gli eresiarchi impiegarono le stesse arti di seduzione con pari successo. È dunque incredibile che un privato afferrasse la spada e lo scettro, soggiogasse i suoi concittadini, e colle sue armi vittoriose fondasse una monarchia? Nelle rivoluzioni delle dinastie dell'oriente, cento usurpatori da una bassa condizione si elevarono in alto, han vinto maggiori ostacoli, fatto più vasti conquisti, posseduto più ampli imperi. Sapea Maometto predicare del pari e combattere, e queste in apparenza opposte qualità, insieme accoppiate, ne accrescevano la gloria, e contribuivano al suo trionfo. Le varie armi della forza e della persuasione, del fanatismo e del timore, continuamente operando l'une coll'altre, ruppero infine tutte le barriere davanti alla invincibile loro potenza. La sua voce chiamava gli Arabi alla libertà e alla vittoria, alla guerra e alle rapine, al godimento, in questo Mondo e nell'altro, de' piaceri più gradevoli ad essi: le privazioni che impose erano necessarie a stabilire la riputazione del Profeta, e ad esercitare l'obbedienza del popolo; e la sua dottrina troppo ragionevole205 della unità e delle perfezioni di Dio, era la sola cosa che opporsi potesse a' suoi progressi. Non conviene fare le maraviglie che abbia introdotta, ma bensì che abbia renduta stabile la sua religione. Volsero dodici secoli, e i popoli d'una parte dell'India e dell'Affrica, e tutti i sudditi Turchi dell'impero Ottomano hanno conservata la purezza della dottrina da lui predicata a Medina e alla Mecca. Se tornassero nel Vaticano i santi appostoli Pietro e Paolo206 forse domanderebbero il nome della Divinità che si adora in quel tempio magnifico con tante cerimonie misteriose: meno sarebbero sorpresi dal culto d'Oxford o di Ginevra, ma sarebbero sempre astretti ad imparare il catechismo della Chiesa, e a studiare i lunghi commenti pubblicati sugli scritti loro e sulle parole del lor Maestro; ma la moschea di Santa Sofia rappresenta, peraltro con più magnificenza e maggiori proporzioni, l'umile tabernacolo innalzato a Medina per mano di Maometto. Tutti i Musulmani hanno resistito ad ogni tentativo d'avvilire gli oggetti della fede e divozion loro adattandoli a' sensi e all'immaginazione dell'uomo. «Credo in un solo Dio, e Maometto è il suo appostolo:» questa è la loro semplicissima e immutabile profession di fede. Non mai degradarono207 con alcun simulacro l'immagine intellettiva della Divinità; non mai gli onori tributati al Profeta eccedettero quelli meritati dalle umane virtù; e i precetti sempre vivi nel cuore dei suoi discepoli, hanno tenuta la gratitudine fra i confini della ragione e della religione. È bensì vero, che i Settari d'Alì hanno consacrata la memoria del loro campione, di sua

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<p>197</p>

Ho abbreviato la bella narrazione d'Ockley (t. II, p. 170-231), assai lunga e piena di minuti particolari, dai quali bene spesso emerge appunto il patetico.

<p>198</p>

Il danese Niebuhr (Voyages en Arabiae, etc., t. II, p. 208 ec.) è forse quel solo de' viaggiatori Europei che abbia osato andare a Meshed-Alì, e a Meshed-Hosein. Que' due sepolcri sono in mano de' Turchi, i quali soffrono la devozione degli eretici Persiani, ma l'assoggettano ad un tributo. Il Chardin, che tante volte ho lodato, descrive partitamente la festa della morte di Hosein.

<p>199</p>

Il d'Herbelot nota la successione all'articolo generale Iman; e negli articoli speciali per ognuno de' dodici pontefici dà un ristretto della lor vita.

<p>200</p>

Parrà ridicolo il nome d'Anticristo, ma i Musulmani hanno attinto da tutte le religioni (Sale, Discours prélimin. p. 80-82). Nella regia scuderia d'Ispahan stanno sempre due cavalli sellati, l'uno per Mahadi, e l'altro pel suo luogotenente, Gesù, figlio di Maria.

<p>201</p>

L'anno dugento dell'Egira (A. D. 815). V. d'Herbelot, p. 546.

<p>202</p>

D'Herbelot, pag. 342. Cercavano gli avversari de' Fatimiti ogni modo per avvilirli col dar loro un'origine giudaica; ma quelli provavano benissimo d'essere discendenti di Iaafar, sesto Imano; e l'imparziale Abulfeda conviene in questo (Annal. moslem. pag. 238) ch'erano riconosciuti da parecchi, qui absque controversia genuini sunt Alidarum, homines propaginum suae gentis exacte callentes. Cita alcune linee del celebre Seriffo Or-Rahdi, ego ne humilitatem induam, in terris hostium? (Sospetto ch'ei fosse un Edrissita della Sicilia) cum in Egypto fit chalifa de gente Alii, quocum ego communem habeo patrem et vindicem.

<p>203</p>

I re di Persia dell'ultima dinastia discendono dallo Sheik Sefi, santo del quattordicesimo secolo, e per lui da Moussa Cassem, figlio di Hosein, figlio d'Alì (Olear. p. 957; Chardin, t. III, p. 288): ma non posso assegnare i gradi intermedii di veruna di queste o vere o favolose genealogie. Se erano Fatimiti, provenivano forse da' principi di Mazanderan che regnavano nel secolo nono (d'Herbelot, p. 96).

<p>204</p>

Demetrio Cantemiro (Hist. de l'Empire ottom. p. 94) e Niebuhr (Descript. de l'Arabie: p. 9-16, 317, ec.) descrivono esattamente lo stato odierno della famiglia di Maometto e d'Alì. Peccato che il viaggiator Danese non abbia potuto possedere le cronache dell'Arabia.

<p>205</p>

Considerando la religione di Maometto dal solo aspetto dell'unità e delle perfezioni di Dio, vi si trova anzi ogni motivo di propagazione; ed è far troppo torto al genere umano, e specialmente agli Arabi che al momento della predicazione di Maometto erano idolatri, il pensare che per quanta prevenzione cieca avessero a favor dell'idolatria, ossia del politeismo, la loro ragione dovesse a lungo opporsi all'idea, sostenuta da Maometto, e tanto naturale, di un'Esser supremo e delle sue perfezioni.

<p>206</p>

Se gli Appostoli S. Pietro e S. Paolo andassero ora nella magnifica, e famosa Basilica del Vaticano, vi vedrebbero professati i medesimi dogmi, ch'essi credettero e pubblicarono; li troverebbero spiegati dai Concilj generali, ed espressi in formule, od Atti di Fede, secondo lo spirito ond'essi medesimi li sparsero. Vi troverebbero a dir vero nuovi metodi, nuove discipline, nuove cerimonie. Ma S. Pietro stesso nel Concilio da lui tenuto in Gerusalemme pose, di consenso cogli altri seguaci di Cristo ch'era già morto, alcune regole, e prese risoluzioni convenienti, e vantaggiose alle circostanze de' cristiani di quell'epoca, come pure fece S. Paolo nella Grecia; e perciò vedrebbero con piacere i buoni ed utili ordinamenti, e discipline, che secondo le circostanze, e per l'utilità e propagazione del cristianesimo, e l'edificazione de' credenti, furono fatti in Roma, e diffusi nelle province a norma delle decisioni dei Concilj, e delle Decretali e Costituzioni de' Papi; e vedrebbero poi a decoro della religione, e quindi con grande compiacenza, un tempio magnifico eretto dalle idee principesche, e dai tesori di Giulio II, e di Leone X; vedrebbero poi in un colla semplicità del culto protestante di Ginevra l'allontanamento dalla buona dottrina, cui per altro diedero origine le grandi spese, e le publicate Indulgenze di Leone X per la costruzione del Vaticano.

<p>207</p>

Non hanno forse anche i Cristiani nel loro intelletto l'immagine pura della Divinità?