La vita italiana nel Trecento. Various
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La polemica rimase allora circoscritta fra' teologi; chè i popoli, non ancora usciti dalle tenebre della barbarie medievale, non potevano interessarsi a cose che non capivano. Ed estranea ad essa rimase pure Roma, sebbene vi fosse più direttamente interessata. Ciò fu una grande sventura per l'Italia; imperocchè, non mai si presentò una occasione tanto favorevole per far iscomparire senza scosse e senza turbamenti il poter temporale, siccome allora. In luogo di riguardare la lontananza dei papi siccome una liberazione propria, i Romani la considerarono come una calamità: onde stemperaronsi in lacrime e in querele per far tornare nell'abbandonata basilica di San Pietro il successore dell'Apostolo, nel quale vedevano più volentieri una miniera da sfruttare, che un despota da abbattere. Tutti erano concordi in questo sentimento; perciò i settant'anni della dimora dei papi in Avignone rimasero sterili per la romana libertà. Più che sterili, e' furono ad essa addirittura nefasti. Perchè, in quel periodo andò distrutta la potenza delle case patrizie che era stata l'unico freno del despotismo papale. Quelle case, già colpite nelle loro ricchezze dalla lontananza della curia ecclesiastica, lo furono nella stessa loro esistenza dall'odio popolare suscitato dalle violenze loro. I settant'anni passati dai papi in Avignone, furono per Roma settant'anni di guerre civili combattute fra nobiltà e popolo. Il Petrarca, che avea l'anima piena di entusiasmo e di ammirazione per Roma, così da poter dire, che la vista della città eterna gli avea destato la meraviglia, non già che essa avesse dominato il mondo, sì bene che tanto tardi fosse giunta a dominarlo; allo stesso cardinale Colonna, al quale manifestava questo suo pensiero, tesseva il seguente quadro dello Stato di Roma durante l'assenza dei papi. La lettera è del 1335.
“La pace è da codesti luoghi, non so per qual delitto del popolo, per quale legge celeste, per qual destino o quale influsso di costellazioni, bandita. Poichè, vedi! Il pastore vigila qui armato nei boschi, più temendo i ladroni che i lupi: loricato è qui il colono, che adopera la lancia per pungere il dorso dell'indocile toro; qui nulla si tratta senz'armi. Fra gli abitanti di questa contrada non regna sicurezza, non pace, non umanità; ma guerra, odio, e tutto ciò che assomiglia ad operazione di mali spiriti„ (Rer. Fam. Ep. II, 12).
Chi avesse voluto trarre il prognostico della vita di Roma in quei 70 anni dalle promesse fatte a Dio dai Romani all'inizio di quel periodo, avrebbe dovuto credere che l'epoca di Numa fosse scesa dal suo regno mitico per diventare nel secolo XIV una realtà storica. Ma quando mai furono visti i voti innalzati al cielo in un momento di terrore, vincolare le coscienze dei popoli dopo che il terrore è scomparso e dissipata è la tempesta che lo avea fatto nascere? – Nella notte del 6 maggio 1308, la chiesa madre della cristianità, la basilica Lateranense era andata distrutta da un incendio. Quella rovina parve l'annunzio di una punizione celeste che stesse per colpire la città. L'assenza del papa dalla sua legittima sede, concorreva a raffermare quel lugubre giudizio. In mezzo a tanto abbattimento degli animi, le parti nemiche si riconciliarono; e tutti, nobili e popolo, si posero all'opera con grande fervore per isgombrare il suolo dalle rovine e per procacciare materiali da costruzione intanto che le processioni dei preti si aggiravano mestamente salmodiando per le vie della città sgomentata.
Erano passati appena pochi mesi da quel disastro, che i Romani si erano scordati affatto del loro voto, e coloro che aveano promesso di vivere in consorzio fraterno, erano tornati novamente alle prese fra loro: da un lato, le famiglie Orsini e Colonna, per mutua gelosia e insaziabile cupidigia; dall'altro, la nobiltà e il popolo, per antagonismo sociale, moveansi aspra guerra. La città pareva diventata un campo di battaglia; e mentre i nobili dall'assenza del papa traevano argomento di nuova baldanza, il popolo faceva esso pure pro' di tale anarchia, opponendo alla nobiltà una specie di Comune democratico. Ai due senatori che rappresentavano il ceto privilegiato, esso contrappose pertanto una rappresentanza delle corporazioni delle arti, e chiese al papa che sanzionasse il nuovo governo. Clemente V, non potendo per le nuove condizioni del papato, sedare le discordie romane, si appigliò al partito più profittevole alla Curia: egli diede, cioè, ragione alla parte popolare, lasciando ai cittadini la facoltà di darsi il governo che loro meglio talentasse. Così, per opera di un papa francese e residente fuori d'Italia, Roma ebbe nelle età di mezzo le sue prime libertà. Il popolo non guardò con quale animo fossero quelle concesse, come non presentì che il successo delle discordie cittadine sarebbe stato la rovina d'ogni libertà. Con grande letizia adunque s'inaugurò il novello Comune, il Comune democratico, e i due senatori cedettero il posto al magistrato popolare.
Mentre questo evento si compiva in Roma, un grido di gioia echeggiò dalle rive del Po a quelle del Tevere. La maestà dell'impero romano, per sessant'anni invocata invano, compariva nel 1310 improvvisa, dispensatrice di pace alle genti italiane. Personificava il lussemburghese Enrico VII. “Egli veniva, scriveva allora Dino Compagni, a metter pace come fosse un agnolo di Dio„; egli veniva, scrivea il divino poeta di nostra gente, a compiere i destini provvidenziali del popolo romano, a visitare e a consolare la desolata Roma:
“Vieni a veder la tua Roma che piagne
Vedova e sola, e dì e notte chiama:
Cesare mio, perchè non m'accompagne?„
Non mai un principe suscitò al suo comparire tante speranze nella gente nostra, come non mai a quelle era mancata ogni ragione che le giustificasse. Ma non era la persona del sovrano che qui si acclamava e s'invocava; sì bene era la maestà dell'impero per lui fatta rediviva; di quell'impero, che l'Allighieri, illustrandolo nella conservazione della tradizione romana, associava al rinnovamento d'Italia e all'abbattimento del poter temporale della Chiesa.
Quest'inno che l'Italia scioglie all'impero risorto, è un preludio anch'esso del Rinascimento che sta per ispuntare. Il quale ha già vivo il suo vate e il suo padre ancora. Egli è Francesco Petrarca. Nella mente di lui, come in quella di Dante, l'impero consiste nel popolo romano; ma la storia di esso popolo non è più pel Petrarca, come lo fu già per Dante e per gli scolastici, una serie di predestinazioni provvidenziali, di mitiche adombrazioni di una futura città di Dio; sì bene è la più poderosa manifestazione della civiltà umana; ond'egli ne trasse ragione di maggiore abominio dal medio evo – i cui rappresentanti, coetanei suoi, gli parevan già cadaveri puzzolenti – e di pronostico di una nuova età, onde sentiva in sè l'ideale, e ne era così penetrato da trasfonderne la coscienza ne' suoi contemporanei. Quando il popolo romano, lasciate per un istante le battaglie civili, si affollò intorno al Petrarca recandogli corone di fiori, e i Colonna e gli Orsini imposero ai loro odii la tregua di Dio per deporre insieme la ghirlanda d'alloro sul suo capo, era la religione dell'ingegno e della scienza che ricevea il suo primo culto, era il Rinascimento che ricevea il primo saluto dal mondo.
Ma il popolo romano, nel rendere quel saluto, non ebbe la coscienza della grandezza dell'atto che compiva: tanto è ciò vero, che niuno meno di esso approfittò della nuova luce di civiltà che il Rinascimento diffuse nel mondo. Codesta antinomìa esistente fra il concetto altissimo in cui il popolo romano era tenuto, specie in quella età, e l'effettivo merito suo, è dal Petrarca spiegata per mezzo dell'ignoranza di esso popolo della propria storia. Secondo il Petrarca, Roma solo allora risorgerebbe, quando giungesse a riconoscere sè medesima. Ma non era solo il riconoscimento proprio che a Roma