La vita italiana nel Trecento. Various

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La vita italiana nel Trecento - Various

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il quale il patriottismo diventa fazioso e la concordia impossibile. Le classi in cui era partita la cittadinanza romana, portavano i soliti nomi di nobiltà e popolo; ma questa nobiltà e questo popolo sentivano e agivano oppostamente l'una all'altro; imperocchè avessero contrari gl'interessi e gl'intenti. Già il titolo di principi, che i nobili si arrogavano, dimostrava lo spirito di casta imperante in seno ad essi, e fatto ora più potente dall'assenza dei papi. In seno alla nobiltà tre famiglie sopratutto spiccavano per potenza e per orgoglio: i Colonna, gli Orsini e i Gaetani. Mezza Roma stava in potere di costoro; e, mentre essi riempivano la città di loro violenze, le prime due famiglie offrivano lo spettacolo di un odio fanatico, che dalla ragione di parte traeva il pretesto, e dalla cupidigia disfrenata l'impulso. Di fronte alla nobiltà stava il popolo diviso in corporazioni d'arti e mestieri; ma lo scarso sviluppo avuto da queste, non permise al popolo romano di opporre alla nobiltà associazioni ordinate e poderose per il numero e l'agiatezza dei membri; onde quella potè avere sul popolo facile ragione. Codesto stato di disgregamento sociale diede i suoi frutti nel periodo dell'assenza dei papi. Ei sembra che più popoli vivessero in Roma, anzichè un popolo solo; tanto è piena di incoerenze e di contraddizioni la condotta sua nelle diverse contingenze in cui la città venne a trovarsi. Tutto dunque in Roma è discordia: discordia fra nobiltà e popolo, e fra ciascuno dei due ceti. Come era possibile fondare in tale condizione di cose la libertà romana?

      Vediamo ora in atto questi elementi discordi. Primo a sperimentarli fu Enrico VII. Il principe, invocato in tutta Italia come un liberatore, trova in Roma il primo contrasto. Mentre il popolo lo acclama, i nobili lo combattono. Roma è trasformata in un campo di battaglia; le sue vie sono fatte rosse di sangue; sembra che satana le abbia invase: e in mezzo alla battaglia civile, Enrico ricevea la corona di Costantino dalle mani di due vescovi, nella basilica Lateranense: cerimonia non mai vista in quel luogo e con tali capi. E se l'assenza del papa toglieva ad essa il suo maggiore prestigio, le macerie della basilica non ancora rimosse, simboleggiavano la rovina che fatalmente incombeva su l'impero feudale.

      Partito Enrico, la battaglia civile continuò fra nobili e popolani; i primi cacciano dal Campidoglio il vicario imperiale, e v'insediano Francesco Orsini e Sciarra Colonna quali senatori. Quei due nomi, uniti insieme nel supremo magistrato, doveano essere simbolo di pace fra le due famiglie rivali; ma fu la pace di un giorno. Guastolla la riscossa popolare, nella quale i due senatori furono cacciati dal Campidoglio, e la somma delle cose fu affidata a un capitano del popolo, Jacopo Arlotti, assistito da un consiglio di 26 boniviri, rappresentanti i 13 rioni della città. Questa vittoria del popolo dovette essere di ben grande momento, se il nuovo capitano potè trarre carichi di catene davanti al suo tribunale i capi delle famiglie nobili, e giudicare senz'appello di loro sorte. Alla ragione di Stato che domandava estremo rigore, prevalse la compassione inspiratrice di clemenza, e i prigionieri uscirono da quelle strette col solo sfratto da Roma. Il rigore risparmiato ai nemici ebbe uno sfogo selvaggio, d'altra parte. Un decreto dell'Arlotti ordinava la distruzione dei monumenti e dei palazzi posseduti dai nobili. Pareva si fosse tornati dieci secoli addietro, quando su Roma pagana infuriava il fanatismo dei nuovi cristiani; e come quelle rovine avean inspirato le imprecazioni dell'ultimo poeta romano Claudio Claudiano, così le rovine nuove inspirarono l'invettiva non meno legittima del primo storico del Rinascimento, Albertino Mussato, da Padova. Se tutti i monumenti romani consacrati alla distruzione non scomparvero allora, ciò fu dovuto alla loro grande solidità; e andò salvo, fra gli altri, per questa cagione, Castel Sant'Angelo.

      Male auspicato era il plebiscito rinascente fra quelle rovine. Esso infatti non veniva, come il vecchio plebiscito tribunizio, a proclamare la egualità civile e politica fra la nobiltà e il popolo, la quale era stata la base di granito su cui era sorto il dominio mondiale dell'antica Roma; sì bene veniva ad affermare l'impotenza di Roma medievale, di vivere indipendente e libera. E dappoichè il papa l'avea abbandonata, il popolo invocava il braccio dell'impero, e chiamava l'imperatore Enrico a salire il Campidoglio da trionfatore, e a restarvi, tenendosi pago il popolo di essere riconosciuto come autore del nuovo principato: Cæsarem evocandum in urbem, scrive il Mussato, vehendumque triumphaliter in Capitolium, principatum ab sola plebe recogniturum.

      Ricordo troppo amaro avea Enrico portato con sè da Roma, perchè potesse accogliere l'invito che eragli fatto. Nè s'ingannò disconoscendo di quello la serietà e l'efficacia. Infatti, colla stessa rapidità ond'erasi compiuta poc'anzi la rivoluzione democratica, la reazione dei nobili atterrava, sulla fine di febbraio del 1312, il reggimento popolare, non curandosi del riconoscimento che quello avea avuto da Avignone. Le parti sono ora invertite; il giudice dei nobili, Jacopo Arlotti, è tratto in prigione, e i nobili da lui banditi riprendono il seggio senatorio.

      La lunga assenza del papato accresceva intanto le angoscie di Roma. Venuti meno alla città i profitti della curia, la miseria afflisse le classi popolari, incapaci di compensare col lavoro i redditi mancati. La miseria del popolo diè impulso al rimbaldanzire della nobiltà faziosa; la quale trovò ora nello stesso ceto sacerdotale un emulo alle sue ribalderie. In una epistola indirizzata dai Romani a papa Giovanni XXII, è fatta una nera dipintura dei costumi dei giovani ecclesiastici. Essi scorazzavano, diceva lo scritto, di notte per le vie con la spada in pugno, commettendo ogni fatta di enormezze: per tabernas et loca alia inhonesta cum armis evaginatis per urbem… homicidia, furta, rapinas commictunt.

      Unico rimedio a codesti mali riguardavasi da tutti il ritorno dei papi in Roma; e legazioni su legazioni furono mandate dai Romani ad Avignone per sollecitare papa Giovanni a fare ritorno nella sua legittima sede. Non ascoltati, e' gittaronsi nelle braccia del suo nemico Lodovico il Bavaro; il quale allora appunto veniva in Italia per strappare dalle mani di usurpatori stranieri, com'egli diceva, i diritti dell'impero e la signoria del mondo. “Nell'aprile del 1327, i Romani, scrive Giovanni Villani, si levarono a rumore e feciono popolo.„ Impadronitisi gl'insorti di Castel Sant'Angelo, cacciarono dalla città i partigiani del re angioino e fondarono un governo democratico, eleggendo capitano del popolo il ghibellino Sciarra Colonna, quel desso che, 25 anni prima, avea in Anagni puntata la sua spada al petto di Bonifacio VIII. Giovanni XXII, preso da furore, bandisce una crociata contro il Bavaro; e questi fa proclamare dal popolo romano, radunato in parlamento nella piazza di San Pietro, la deposizione del pontefice imputato di eresia. Ma la eresia di che papa Giovanni era colpevole davanti ai Romani, e per la quale essi eransi levati contro di lui e aveanlo deposto, era cosa affatto diversa da quella dichiarata dall'umanista padovano Marsilio nella sua celebre invettiva: la colpa del pontefice era di dimorare fuori di Roma e di rifiutarsi a farvi ritorno. Vi era tanto poco sentimento religioso in quella levata di scudi, che in quei giorni stessi di fermento popolare, un cappellano del papa, Jacopo Colonna, potè entrare in Roma accompagnato da quattro uomini mascherati, leggere pubblicamente la sentenza di scomunica lanciata dal papa contro il Bavaro, e andarsene poi da Roma, senza che alcuno lo molestasse. Conclusione necessaria di questa lotta fu la creazione di un antipapa. Sortì eletto, con procedimento affatto nuovo, un monaco di Corbara, che prese il nome di Nicolò V.

      Ma tutto questo dramma effimero svanì, appena che Lodovico fu partito da Roma, menando seco l'antipapa. La sua partenza era parsa piuttosto una fuga. Un'impresa tentata con esito infelice contro Napoli gli avea fatto perdere ogni prestigio presso i Romani; e quando egli se ne andò, “lo ingrato popolo, scrive Giovanni Villani, gli fece la coda romana, onde il Bavaro ebbe grande paura ed andonne in caccia e con vergogna„. Così l'impero, che l'Allighieri avea poc'anzi magnificato nella sua idealità sublime, cadeva ora in una realità ignominiosa. I Romani divisero quell'ignominia. Il popolo, fatto nuovo parlamento, abiurava la fede data al Bavaro e all'antipapa, e faceva piena sottomissione al papa di Avignone. Tornarono ora gli antichi malanni, rincruditi dalle nuove delusioni, a tormentare la misera città. La quale consumavasi nella inopia e nella oscurità col capo rotto ed esangue, intanto che nella remota Avignone il vecchio pontefice, dimentico di lei, ammassava tesori. Alla sua morte, trovaronsi nel suo scrigno diciotto milioni in tante monete d'oro e sette in oggetti preziosi. Questo tesoro dà ragione della povertà onde Roma era allora tribolata.

      Ma la morte del pontefice avaro non pose termine e nemmeno temperò i mali della misera metropoli. Il nuovo papa, Benedetto XII, invece di restituirvi il sommo pontificato, inalzava in Avignone un palazzo pontificio di dimensioni

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