La vita italiana nel Trecento. Various

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La vita italiana nel Trecento - Various

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e poi sistemi planetari che come il nostro compiono le proprie rivoluzioni, e infine soli spenti e pianeti frantumati; così a mal agguagliare, sussistevano insieme, nei secoli XIII e XIV, feudi d'antica data, comuni rimasti o rifattisi liberi, e signorie di varia grandezza e di varia natura.

      Sotto quest'ultimo nome, nel più largo significato, si comprende ogni specie di sovranità: Venezia e Firenze, per esempio, avevano ciascuna la sua signoria, che era composta, per la prima, del doge e dei suoi collegi, per la seconda del gonfaloniere e de' priori. Signorie si chiamavano pure le giurisdizioni e i principati feudali, per lo più di remota ed oscura origine; alla qual categoria appartenevano alcuni Stati ragguardevoli, come quelli dei marchesi di Monferrato, e dei marchesi di Saluzzo (ambedue famiglie aleramiche), e quelli dei conti di Savoia, da cui si era staccato nel 1295 il ramo dei principi d'Acaia. Finalmente spetta la medesima denominazione anche al potere acquistato per eredità, o conquistato per invasione, quale fu quello che ebbero sul Regno, prima gli Svevi succeduti ai Normanni e poi gli Angioini, e sulla Trinacria nel secolo XIV gli Aragonesi, dopochè la mala signoria dei Francesi trasse Palermo a gridar mora! mora! Di codeste signorie peraltro non tocca a me d'intrattenervi, salvochè per ricordare come gli Angioini, introdottisi in Piemonte nel 1265, vi ottenessero la dedizione di parecchie città; le quali poi, tradite dal marchese Guglielmo di Monferrato, fecero lega, e, presolo, lo rinchiusero dentro una gabbia, in Alessandria, ove in capo a due anni morì, e quelle città passarono per la più parte a Casa di Savoia. Ma le signorie, nel significato ristretto e propriamente storico della parola, sono soltanto quelle che si sostituirono ai Comuni. Anche in tali termini la materia è sì vasta che ci sarebbe da discorrerne per mesi ed anni, non che per ore e giorni. Ma non vi spaventate! c'è una tirannia, maggiore d'ogni altra, e che non ha bisogno d'illustrazione: è quella del tempo, alla quale non voglio menomamente sottrarmi. Per ciò appunto ho scritto questa chiacchierata, invece di dirla familiarmente come avrei preferito. E per la medesima ragione non istarò a enumerarvi tutte le signorie del XIII e del XIV secolo (che già sarebbe impossibile) e neanche tutte le principali. Mi contenterò invece di additarvi rapidamente le diverse specie in cui esse possono distinguersi; e le loro qualità generali, come fin qui ho cercato di mostrarvi la causa prima e fondamentale da cui derivarono tali rivolgimenti politici. Dopodichè, determinata la cornice e descritto il campo del quadro, potremo mettervi dentro qualche figura più tipica delle varie famiglie di signori e di tiranni.

      V

      Se guardiamo alle origini, parecchi tra i signori sono antichi feudatari che già dimorano stabilmente nelle città, oppure vi calano dagli aviti castelli, dove tuttavia esercitano i privilegi nascenti dall'atto d'investitura e dalla consuetudine, e più veramente dalla forza, per quanto almeno la forza altrui non gli abbia stremati. Ve ne sono poi che vengono dal popolo; i quali, nei tempi più recenti (in particolar modo nel secolo XV), non procedono più alla maniera selvaggia dei primi, ma con arti politiche raffinate e, come dicevasi, con modi civili. Infine i condottieri, qualunque sia la loro schiatta, costituiscono una categoria di per sè stante; giacchè i primordi delle compagnie di ventura, così nella storia come anche nel nostro tema, si collegano coll'estendersi delle signorie. Rispetto dunque all'origine si hanno i feudatari, i cittadini, e i condottieri, che possono essere dell'una o dell'altra specie; quanto poi all'acquisto della signoria, suol conseguirsi per dedizione, per compra o per violenza o per queste varie vie congiuntamente, e di solito mediante l'ufficio di podestà, di capitano del popolo o di vicario.

      VI

      Insediatosi nella città, il signore deve pensare a difendersi contro gli avversari, che in casa e fuori congiurano contro di lui o gli fanno guerra aperta. Come ha acquistato l'autorità per virtù della propria energia personale, del pari deve adoperare assiduo studio a conservarla. Il suo governo sarà più o meno feroce a seconda dell'indole dell'uomo e delle contingenze; rimarrà sempre peraltro un sogno poetico l'ideale che il Petrarca delineava scrivendo a Francesco da Carrara, signore di Padova, intorno all'ottima amministrazione dello Stato. Egli voleva che il principe fosse non padrone ma padre della patria; e delle armi e dei trabanti si valesse non contro i cittadini, ma contro i nemici e i ribelli. Se non che costui, per la sua stessa condizione, è indotto a sospettare di tutti i cittadini più ragguardevoli ed a trattarli tutti da nemici e ribelli: non è rattenuto da alcun scrupolo ne si ristà dal commettere delitti, macchiandosi puranco del sangue dei suoi parenti. Colla plebe invece, che non gli dà ombra, si sforzerà di mostrarsi benefico, e di amicarsela provvedendo largamente ai bisogni pubblici. Ma per tali spese, non che pel fasto della sua corte e per lo paghe delle sue milizie, gli occorrono denari; procurerà di non aumentare le gravezze e finchè può lascerà le cose come le ha trovate, ma penserà ad impinguare l'erario, sia colla meditata spoliazione di un dovizioso cittadino e magari d'un proprio ministro arricchito, sia mediante qualche impresa fortunata o qualche buona condotta militare; nè è raro il caso che un signorotto si metta per un certo tempo agli stipendi d'un altro signore o d'un Comune.

      Sospetto, crudeltà e cupidigia sono pertanto i vizi ordinari del signore, che quasi per necessità è costretto a farsi tiranno. E niuno meglio di Dante che nel suo esiglio dovette pur troppo frequentare le corti, e

      Scender e salir per l'altrui scale,

      esprime lo sdegno dei galantuomini contro coloro

      che dier nel sangue e nell'aver di piglio;

      e ne fa vendetta cacciandoli all'inferno dentro al sangue bollente.

      Tutti ricordate come nella famosa imprecazione alla serva Italia in sul principiar del 300, egli attesti:

      Che le terre d'Italia tutte piene

      Son di tiranni ed un Marcel diventa

      Ogni villan che parteggiando viene.

      Ma c'è un altro passo della sua operetta latina sulla volgare eloquenza, dove, dopo aver esaltato il valore e la gentilezza della casa di Svevia e specialmente di Federigo II e di Manfredi, vi contrappone l'abbietta volgarità e la superbia plebea dei tiranni contemporanei; e con bizzarra fantasia finge che facciano tutti insieme un diabolico concerto musicale per chiamare a raccolta i più scellerati uomini del mondo. Racha, racha! incomincia egli, usando una parola evangelica, come a dire: Ohibò, vitupero! E poi prosegue: Che mai suona ora la tromba dell'ultimo Federigo (d'Aragona)? Che la campanella di Carlo II (d'Angiò)? Che il corno dei potenti marchesi Giovanni (di Monferrato) e Azzo (d'Este)? Che i pifferi degli altri signori? Qual voce n'esce salvo che questa: Venite carnefici! venite frodatori! venite predoni!

      Così li bollava il gran giustiziere del medioevo; ma non bisogna credere che tutti i signori fossero scellerati volgari. Pronti ad ogni delitto erano i più tra loro: non i più peraltro facevano il male senza qualche ragione politica, ed unicamente per isfogo di basse e brutali passioni. La sottile arte di stato che il Machiavelli vide praticata in sul finire del 400 e in sul principiare del 500, e che egli ridusse in regole scientifiche nel libro del Principe, erasi andata formando appunto nei due secoli precedenti; nè altrimenti sarebbe potuta giungere d'un tratto a sì alto grado di odiosa perfezione.

      VII

      Consapevole della propria illegittimità, il nuovo Signore s'industria ad avvalorare la sua autorità con un diploma d'investitura imperiale o pontificia, che paga anche a caro prezzo. Ma i titoli che si comprano, allora come ora, si sa appunto quanto valgono, non più e forse meno del costo. Dopo la rovina degli Svevi la maestà dell'impero andò sempre declinando; invocati pacificatori quando stavan lontani, i Cesari germanici, ogni qualvolta calarono in Italia tra il 1268 e il 1400 fecero mostra d'impotenza; se uno almeno, Arrigo VII, vi morì sconfitto ma compianto (e le lodi di Dante, di Dino Compagni, di Cino da Pistoia, di Sennuccio del Bene, di Albertino Mussatto onorano tuttavia la sua memoria), gli altri due, Ludovico il Bavaro e Carlo IV di Boemia, se ne partirono svillaneggiati e derisi, dopo aver operato più da mercanti che da sovrani.

      Le beffarde querele di Franco Sacchetti a papa Urbano V e

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