La vita italiana nel Trecento. Various

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La vita italiana nel Trecento - Various

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Corrado II il castello di Romano. Il primo Ezzelino, tornato dalla seconda crociata, fu creato avvocato ossia mandatario e campione di molti vescovi e abati e con ciò arricchì e ingrandì la sua casa. Dopo aver servito il Barbarossa, passò all'altro campo e diventò rettore della Lega lombarda; giurò la cittadinanza di Treviso e di Vicenza e in ambedue questi Comuni tenne per primo l'ufficio di podestà.

      Il figliuolo, Ezzelino II, vien detto il Monaco, perchè (come varii principi di quella e d'altre età) volle finir la vita in un chiostro. Succeduto al padre nel 1184, ne continuò le tradizioni e la fortuna politica, or podestà, or capitano di varie città, e sempre accortamente mescolato nelle guerre e nelle paci, nelle leghe e nelle fazioni. L'istesso fece il terzo Ezzelino; ma con tanta gagliardia e con tanta crudeltà che colpì le menti di pauroso stupore; le storie e le novelle, anche più di due secoli appresso, sono piene del suo nome; onde l'Ariosto cantava:

      Ezzelino, immanissimo tiranno

      Che fia creduto figlio del demonio.

      Colle podesterie e colle armi, aiutato da Federigo II e dai Ghibellini, s'era impadronito di Verona, di Vicenza, di Bassano, di Padova, e quindi di Treviso, di Trento, d'Este, di Bassano e di Belluno: si reggeva cinto da satelliti, spogliando e abbassando i grandi, e sollevando la plebe, e parve giungere al culmine nel 1250, mentre la città di Verona lo gridava suo signore, a suono di trombe e di tamburi, in mezzo ad un generale tripudio non minore di quello che nel 1259 doveva festeggiare la sua estrema rovina. Oramai i Comuni lombardi che primi avevano acquistata la libertà, erano anche i primi a mostrarne fastidio. E se n'era veduta pure una prova, diciassette anni innanzi, quando il buon frate Giovanni di Schio, predicando concordia e perdono, aveva fatto giurare la pace a ben 300 mila persone sui campi di Paquara. Poichè il frate medesimo col favor della moltitudine fu eletto conte e signore a Vicenza e a Verona; e tosto prese a mutare statuti e magistrati, a farsi dare ostaggi, e fu accusato d'infierire contro gli eretici e i Ghibellini; onde si riaccesero le passioni un momento sopite, e l'opera del sant'uomo miseramente fallì. Par di leggere la scena dello Shakespeare, così vera di psicologia storica, dove la plebe romana, in risposta all'infiammata allocuzione di Bruto, gli gridava: “Sii tu il nostro Cesare!„ Infatti la repubblica nell'antica Roma non poteva risorgere, e trascorsi appena tredici anni dall'uccisione di Cesare, vi si impiantava il dominio d'un solo. Alcunchè di simile accadde nei Comuni lombardi, nella seconda metà del secolo XIII, dopochè Ezzelino, vinto al Ponte di Cassano dalla crociata bandita contro di lui da papa Alessandro IV, morì ferocemente quale aveva vissuto, lacerandosi le ferite, e quindi il fratello e i parenti di lui furono fatti a pezzi, con orribili stragi.

      Nell'ebbrezza della vittoria tutte le città pensarono di rivendicarsi in libertà, e Verona, Vicenza, Padova, Treviso strinsero una lega di scambievole difesa e fratellanza. Ma fu un fuoco di paglia: e in breve si assoggettarono a nuovi padroni. Verona, per la prima, assalita dal guelfo conte di Sambonifacio nel 1261 elesse capitano del popolo Mastino della Scala, antico soldato e castellano d'Ezzelino. Ed essendo stato questi assassinato nel 1279, il popolo levatosi in armi trucidò i congiurati e mise nel luogo del morto il fratello di lui Alberto, che era podestà a Mantova. Alberto governò con mitezza, promosse l'industria e il commercio, abbellì e munì la città, e aggregò allo Stato Vicenza, Feltre, Belluno e altri luoghi. Gli succedettero prima il figlio Bartolomeo dal 1301 al 1304 e poscia i fratelli Alboino e Can Francesco, serbando sempre il titolo di capitani del popolo, finchè Arrigo VII nel 1312 li creò vicari imperiali.

      Questa famiglia che per l'innanzi non aveva avuto possessi nè titoli feudali, mentre un de' suoi era stato console nel 1147, fu molto probabilmente d'origine latina e cittadina; e la miglior tempra di alcuni suoi principi fa gradevole contrasto coll'efferatezza dei tiranni contemporanei. A Bartolomeo alludeva Dante, quando si faceva dire dal suo avo Cacciaguida:

      Lo primo tuo rifugio e il primo ostello

      Sarà la cortesia del Gran Lombardo

      Che in su la scala porta il santo uccello;

      Che in te avrà sì benigno riguardo

      Che del fare e del chieder, tra voi due,

      Fia primo quel che gli altri è più tardo.

      Il fratello e successore di lui, Alboino, fu uomo fiacco di mente e di corpo; nè il Poeta ebbe da lodarsene; onde gli dette una sdegnosa sferzata nel Convito; ma, per ammenda, esaltò oltremodo il terzo dei figliuoli legittimi d'Alberto, il quale (in grazia, a quanto narrasi, di certo sogno avuto dalla madre) si chiamò fin dalla nascita Cangrande.

      Non se ne sono ancor le genti accorte

      Per la novella età…

      Ed infatti aveva solo nove anni nel tempo in cui Dante finge avvenuto il suo misterioso viaggio, e non più di tredici, quando egli stesso si recò effettivamente in Verona. Annunzia bensì, sempre per bocca di Cacciaguida, che

      … pria che 'l Guasco l'alto Arrigo inganni

      (cioè prima che Clemente V mandi a vuoto l'impresa di Arrigo VII)

      Parran faville della sua virtute

      In non curar d'argento nè d'affanni;

      Le sue magnificenze conosciute

      Saranno ancora sì, che i suoi nemici

      Non ne potran tener le lingue mute.

      A lui t'aspetta ed a' suoi benefici:

      Per lui fia trasmutata molta gente,

      Cambiando condizion ricchi e mendici.

      Nell'ultima profezia può ravvisarsi un'allusione agli effetti del principato che sollevava gli umili e abbassava i grandi, ma assai più oscura è la terzina che segue e che ha inutilmente affaticato l'ingegno degli interpreti:

      E portera'ne scritto nella mente

      Di lui… ma nol dirai… E disse cose

      Incredibili a quei che fia presente.

      I primi versi invece si riferiscono a fatti noti, cioè alla fastosa liberalità con cui Cangrande, rimasto solo signore di Verona nel 1311, radunava intorno a sè artisti, letterati, giullari, uomini d'arme, guelfi o ghibellini che fossero; la compagnia finì col parer anche troppa al Poeta, il quale si partì sdegnosamente da quella corte, dove (se credesi a certe leggende tramandateci dal Petrarca) la sua franchezza riuscì mal gradita. Narrasi in fatti che c'era fra gli altri un istrione procacissimo il quale con motti e con gesti osceni rallegrava assai la brigata. E Cangrande, sospettando che Dante ne fosse indispettito, gli chiese come mai un tal pazzo piacesse a tutti, e viceversa a tutti increscesse un savio come lui. Al che quegli rispose con arguta amarezza: “Perchè ogni simile ama il suo simile.„ Ed anche in altra occasione, dopo un convito, si sarebbero scambiate male parole il Poeta e il Signore esaltato dal vino. Vere o false, queste storielle ritraggono i costumi delle corti medioevali; e parimente ci dà un'idea di tal vita allegra e agitata una bizzarra frottola di Manuel Giudeo, che fu amico e ammiratore di Dante, e che dava il vanto a Verona su tutte le terre di Levante da lui visitate:

      Destrier e corsiere,

      Masnate e bandiere,

      Coraccie e lamiere

      Vedrai rimutare.

      E poi fanti che passano, bandiere che sventolano, strumenti che suonano…

      Qui vengono feste

      Con le bionde teste,

      Qui son le tempeste

      D'amore e d'amare.

      In altre strofette si descrive la più eletta compagnia che raccogliesi nelle sale del Palazzo:

      Baroni e Marchesi

      De tutti i paesi

      Gentili e cortesi

      Qui

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