La vita italiana nel Trecento. Various

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La vita italiana nel Trecento - Various

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la bella contrada di Trevigi

      Ha le piaghe ancor fresche d'Azzolino;

      Roma di Gaio e di Neron si lagna

      E di molti Romagna:

      Mantova duolse ancor d'un Passerino.

      Ma null'altro destino

      Nè giogo fu mai duro quanto 'l nostro

      Era, nè carte e inchiostro

      Basterebben al vero in questo loco;

      Onde meglio è tacer che dirne poco.

      Al che tien dietro, per contrapposto, un cenno, più breve, dei principali fautori di libertà, fra i quali tutti naturalmente Azzo porta la palma:

      Non altri al mondo più verace amore

      De la sua patria in alcun tempo accese…

      E, perchè nulla al sommo valor manche,

      La patria tolta a l'unghie de' tiranni

      Liberamente in pace si governa;

      E ristorando va gli antichi danni

      E riposando le sue parti stanche

      E ringraziando la pietà superna,

      Pregando che sua grazia faccia eterna.

      E ciò si po sperar ben, s'io non erro;

      Però ch'un'alma in quattro cori alberga

      Et una sola verga

      È in quattro mani et un medesmo ferro.

      Per gustare artisticamente tal canzone bisogna dimenticare l'occasione per cui fu composta e i fatti che precedettero e susseguirono la celebrata liberazione di Parma. Ma per lo storico invece importa assai il ricordarli; poichè in tal guisa la poesia diventa altresì un documento psicologico, mostrandoci come uno de' più nobili ingegni di quel secolo, pronto ad esaltarsi ai nomi di patria e di libertà, si studiasse di rappresentare quali magnanimi eroi i suoi amici Da Coreggio, purgandoli dalla taccia di traditori. Questo, secondo il Carducci che ha illustrato da par suo l'intiera canzone, è l'intendimento politico con cui fu scritta, e che fa capolino nel congedo:

      Tu pôi ben dir, chè 'l sai,

      Come lor gloria nulla nebbia offosca.

      E, se va' in terra tosca

      Ch'appregia l'opre coraggiose e belle,

      Ivi conta di lor vere novelle.

      Del rimanente se è vero che nei primi tempi il governo dei quattro fratelli Da Coreggio parve imparziale e paterno, presto andò peggiorando; si mise tra loro la discordia; ed Azzo, assenzienti i più, finì nel 44 con cedere la signoria a Obizzo d'Este per 60 mila fiorini d'oro. Laonde Luchino Visconti, lagnandosi della mancata fede, si unì col Gonzaga e cogli Scaligeri, e ruppe la guerra; sinchè nel 46 convenne con Obizzo che gli retrocedesse la città contro rimborso del denaro da lui pagato ad Azzo; il quale poi, riconciliatosi cogli Scaligeri, ne ottenne nuovamente la fiducia, e nuovamente la tradì: “falso ed abietto uomo„ ben dice il Carducci, chè tale va giudicato sebbene il buon Petrarca “seguitasse ad amarlo e lodarlo, e gli dedicasse quasi a conforto i dialoghi De remediis utriusque Fortunae, e ne compiangesse la morte.„

      XI

      La terra tosca, a cui il Poeta indirizzava la canzone (che poi tralasciò peraltro di porre tra le sue Rime) e dove i Da Coreggio desideravano apparire amatori di libertà, non era propizia all'impianto di stabili signorie; ma neanche v'attecchivano ordini durevoli d'alcuna sorta. Tutti avete a mente il rimprovero di Dante a Firenze:

      … fai tanto sottili

      Provvedimenti, ch'a mezzo novembre

      Non giugne quel che tu d'ottobre fili,

      rimprovero che fu suggerito senza dubbio al Poeta dall'acerbo ricordo del suo Priorato (incominciato il 15 ottobre e interrotto anzi tempo il 7 novembre del 1301), ma che si riscontra giusto in tutta quanta la storia del nostro Comune. Legge fiorentina, suonava un vecchio dettato, fatta la sera e guasta la mattina.

      Per tacere dei mutamenti d'istituzioni, di magistrature e di leggi (alcuni dei quali erano vere rivoluzioni più radicali delle moderne, e, come allor dicevasi, facevano popolo nuovo), il Comune, dove già aveva spadroneggiato nel 1301 Carlo di Valois coi guelfi neri, sotto gli auspicî di Bonifacio VIII, nel 1313 dette la signoria di sè per cinque anni all'angioino re Roberto di Napoli, e similmente per altri dieci, nel 25 e nel 26, al primogenito di lui Carlo duca di Calabria (che in diciannove mesi fece spendere più di 900 mila fiorini d'oro senz'alcun frutto); ed in fine del 42 elesse Gualtieri di Brienne, duca d'Atene, a capitano e conservatore del popolo; “avventuriere, dice uno storico, di poca fermezza e di meno fede… cupido, avaro e male grazioso, che pure il popolo stesso, ampliandogli il potere, acclamò signore perpetuo e che dopo una diecina di mesi cacciò con rabbioso furore.„ La ragione di queste frequenti dedizioni sta nella debolezza del Comune, che, riconoscendosi impotente a soddisfare le sue mire ambiziose, si affidava ad un signore di fuorivia nel quale sperava di trovare coll'unità del comando la forza che gli mancava. Tal sentimento è espresso nel caso nostro, forse meglio che da ogni storico, dal rimator popolare Antonio Pucci in un suo lamento per la perdita di Lucca: città che i Fiorentini avevano comprata da Mastino II Scaligero per ben 250 mila fiorini, ma che sol pochi mesi avevano posseduta, avendola i Pisani assediata ed espugnata. Nel lamento dunque che ha per titolo: Come Lucca si perdè, Firenze stessa così si rammarica:

      Questa mi fu peggior mercantazia

      Ch'i' comperasse mai in vita mia;

      Sì cara mi costò la sensaria

      A questa volta.

      Oimè, Lucca d'ogni vertù folta,

      Che, per averti meco, insieme accolta,

      Ti comperai, ed altri me t'à tolta,

      Ond'io rimango

      Con tanta pena, ch'ogni dì me 'nfrango,

      E sospirando giorno e notte piango.

      E di questo andare continua un pezzo, poichè la sobrietà non è la qualità propria di siffatti cantari. Ma ciò che qui importa è la lieta speranza che anima la chiusa del componimento:

      Or tal signor m'à preso ad aiutare

      Ched i' ò intenzïon di vendicare

      Ogni passata offesa, e racquistare

      L'onor perduto.

      Che 'l franco capitan prod'e saputo,

      Duca d'Atene ch'è per ciò venuto,

      Mill'anni par che d'onore compiuto

      Ci renfreschi;

      E seco menerà pochi tedeschi,

      Ma cavalier taliani e francieschi,

      Que' che son sempre a ben ferir maneschi

      Come leoni.

      Ma furono vane lusinghe; e l'istesso rimatore, in una ballata scritta per la cacciata del tiranno, con arguto scetticismo fiorentino ne fa la storia sommaria e ne dà la conclusione morale, che vale per tutti i tempi:

      Il giorno della Donna (l'8 settembre), ebbe per manna

      Il Duca di Firenze signoria;

      E fu disposto il giorno di sant'Anna

      Che è madre della Vergine Maria;

      E sì come di pria

      Si disse – viva, viva! – con gran gioia,

      Si gridò – muoia, muoia! —

      Comunemente d'una volontade.

      Se

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