La vita italiana nel Trecento. Various
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Читать онлайн книгу La vita italiana nel Trecento - Various страница 18
Quivi astrologia
Con philosophia,
E di theologia
Udrai disputare;
Quivi Tedeschi
Latini e Franceschi
Fiamminghi e Inghileschi
Insieme parlare;
Fanno un trombombe
Che par che rimbombe
A guisa di trombe.
Vi s'incontrano giudei, saraceni, romei, pellegrini, cantori, trovatori, falconieri, ragazzi; poveri affamati; animali domestici e selvaggi; è una corte bandita dove tutti si satollano, tutti si sollazzano di giorno e di notte, con giuochi senza fine: assai lontano crepuscolo alle raffinate eleganze onde rifulgeranno nel seguente secolo, le case e le ville medicee di Firenze, i palagi ducali di Ferrara, di Mantova e d'Urbino.
E questo è 'l signore
Di tanto valore
Che 'l suo grande honore
Va per terra e per mare.
A questa conclusione del nostro rimatore fanno eco altri contemporanei che pagarono con simili lodi i benefizi ricevuti dallo Scaligero: così il Ferreto, storico e poeta di Vicenza, ne cantò la gloria in un poema latino, ed il cronista Sagacio Muzio Gazzata ci lasciò una descrizione delle splendide stanze assegnate agli ospiti, dipinte con diversi emblemi a seconda della condizione delle persone.
Per contrario non gli si mostrò benevolo nè in prosa nè in verso Albertino Mussato, l'insigne storico e il poeta incoronato di Padova, sebbene preso in guerra, sotto le mura di Vicenza, fosse stato trattato da Cangrande più come ospite che come prigioniero. Ma egli era uno dei pochi che serbassero in cuore il culto disinteressato della libertà e del Comune: onde non perdonò mai al signore di Verona le violenze e le insidie a danno della sua patria, mentre per amor di questa, dimenticò, nel maggior pericolo, le ingiurie e l'esiglio sofferti dai Carraresi, che si eran fatti tiranni della città; e invitato si unì con essi contro il comune nemico.
Autore, tra le altre opere, di una tragedia latina dove col titolo di Ecerinis mette in iscena il tiranno, già diventato leggendario, della Marca Trevigiana, il Mussato chiama lo Scaligero Ezelino redivivo. Ma questi, benchè non immune dai vizi dell'età sua e del suo stato, non merita davvero sì ingiuriosa appellazione. Si citano di lui vari tratti che lo mostrano magnanimo anche cogli avversari e assai men rapace d'altri più potenti sovrani; così quando Filippo il Bello, d'accordo con Clemente V, abolì l'ordine dei Templari (nel Tempio portò le sacre vele), e si appropriò le immense ricchezze che possedeva in Francia, Cangrande invece consegnò lealmente ai cavalieri Gioanniti i beni immobili esistenti nel suo Stato, e volse ogni rimanente a vantaggio della città. La sua potenza fondavasi sull'accorgimento politico non meno che sulla virtù guerresca, ed era giunta all'apice nel 1319. Aveva finito col sottometter Padova, cedutagli dallo stesso Marsilio da Carrara, in odio al suo tristo congiunto Niccolò; e posto l'assedio a Treviso, anche questa città gli si arrese, per consiglio degli anziani che vollero prevenire un moto di popolo in favore della nuova signoria. Ma pochi giorni dopo esservi entrato, morì di morbo improvviso, e la sua fine, se crediamo ad un anonimo cantore, fu pianta da tutti, baroni e plebei, e anche da ogni principe e re di corona.
Mort'è la fonte de la cortesia,
Mort'è l'onor de la cavalleria,
Mort'è il fior di tutta Lombardia,
Ciò è messer Can grande,
Che 'l suo gran core e la sua valoria
Per tutto 'l mondo spande!
Ed un altro rimatore, forse più antico, diceva del pari in un sirventese non pervenutoci intero:
Messer Can de la Scala, franca lanza
[è 'l più le]al che sia de qui a Franza,
[per tutto] 'l mondo el porta nomenanza
de prodeze.
I nipoti Mastino ed Alberto ne ereditarono il dominio e l'ambizione, ma non l'animo nè il senno. La fortuna in principio li favorì coll'acquisto di Brescia, di Parma e di Lucca; ma la loro minacciosa grandezza suscitò nel 1337 una lega capitanata da Venezia e Firenze, coi Visconti, i Gonzaga ed altri signori italiani e stranieri a desolazione e rovina degli Scaligeri. Dicevasi allora, e lo riporta un anonimo cronista romano, che Mastino si fosse procacciata una preziosa corona per farsi incoronare re de Lommardia; una simile accusa, in sul finir del secolo, si ripeterà per Giangaleazzo Visconti: e bastava a stringere momentaneamente in un fascio le forze di tutti, contro il pericolo da tutti temuto. Mastino II e Alberto, vinti ed oppressi, perdettero tre quarti dei loro stati e dovettero nel 38 giurar fedeltà a Venezia, cedendole Treviso, Bassano e altre terre. Dopo di loro, quella casa sì ben cominciata finì malamente tra fratricidi e congiure, e nel 1387 Verona cadde in balìa di Giangaleazzo.
L'istessa sorte toccò l'anno seguente a Padova ed ai Carraresi che avevano imprudentemente aiutato Giangaleazzo contro gli Scaligeri. Marsilio, il quale aveva ottenuto la signoria della città, in premio di aver tradito Mastino per cui trattava la pace, era morto prima di poterne godere, e l'aveva lasciata al cugino non meno fornito d'ingegno che di crudeltà. Avendo questi chiamato a succedergli per testamento un Papafava, l'erede escluso, Giacomo da Carrara, assassinò l'altro nel 1345, e morì assassinato egli stesso cinque anni dopo. Il nipote e il pronipote, Francesco il Vecchio e Francesco Novello, che avevan dovuto nell'88 rinunziare allo Stato, lo ricuperarono dopo alcuni anni, ma finirono nel 1406 strangolati entrambi nelle carceri di Venezia.
X
Non posso fermarmi sopra altre delle minori signorie lombarde, tutte macchiate di sangue, e pur non prive d'importanza.
Ma voglio ricordare, in grazia d'una canzone del Petrarca, i casi di Parma, la quale era passata da Giberto da Coreggio ai Rossi e da questi, per accordi intervenuti, agli Scaligeri, nel 1335. Sei anni appresso, Azzo da Coreggio, che già era stato avvocato dei nuovi signori, in corte pontificia, patteggiò coi Visconti e coi Gonzaga che se l'aiutavano a cacciare costoro dalla sua patria egli ne terrebbe la signoria per cinque anni e poi la consegnerebbe a Luchino Visconti. La sollevazione promossa da uno de' suoi fratelli e da lui soccorsa riuscì felicemente; ed il Petrarca, che entrò con Azzo medesimo, suo amicissimo, nella città liberata, celebrò il fatto in bellissimi versi
Libertà, dolce e desiato bene
Mal conosciuto a chi talor no 'l perde,
Quanto gradita al buon mondo esser dèi.
Da te la vita vien fiorita e verde:
Per te stato gioioso si mantene
Ch'ir mi fa somigliante agli alti dei…
E poi, con un giuoco di parole o con allusioni conformi al costume letterario del tempo, così continua:
Cor regio fu, sì come sona il nome
Quel che venne securo a l'alta impresa
Per mar per terra e per poggi e per piani;
E soave raccolse
Insieme quelle sparse genti afflitte
A le quali interditte
Le paterne lor leggi eran per forza,
Le quali, a scorza a scorza,
Consunte avea l'insazïabil fame
De' Can che fan le pecore lor grame.
E qui viene una erudita enumerazione di tiranni, per concludere, con esagerazione