Spettri, Ragazze E Fantasmi Vari. Stephen Goldin

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Spettri, Ragazze E Fantasmi Vari - Stephen Goldin

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fine la tavola che lo seguiva si dette per vinta e sparì. Uno dei primi esploratori spuntò da un edificio con una bottiglia in mano. Vedendo Ryan lo salutò di buon umore e lo invitò ad unirsi a lui.

      Ryan gli passò oltre.

      “Jeffrey!”

      A quel grido non poté far a meno di voltarsi. Lì, sulla soglia di uno dei palazzo, c’era sua madre, morta da quattro anni. Aveva i capelli lunghi come andava di moda quando Ryan aveva tre anni, ma il viso era quello della vecchiaia. Gli tese la mano. “Vieni da me, figlio” chiese sommessa.

       Non è reale. Mamma è morta. E’ un falso. Contraffatta. Illusione. Frode.

      Si voltò lentamente per tirar dritto.

      “Jeffrey! Jeffrey, figlio mio, non riconosci neppure tua madre?”

      Ryan si fermò mordendosi un labbro. Ma non si voltò di nuovo verso di lei. Non osava. “Jeffrey, guardami. Per favore.”

      “No. Sei finta, finta come tutto il resto in questo maledetto posto. Vattene e lasciami solo!”

      Lei gli corse incontro come meglio poteva, reggendosi la gamba sinistra come doveva fare di solito per via dell’artrite. Lo tirò per una manica, gettandoglisi ai piedi. “Sono tua madre, Jeffrey” pianse. “Dì che mi riconosci. Ti prego. Tua madre.” Gli occhi umidi lo guardarono in viso ma lui evitò rapidamente quello sguardo.

      “Lasciami ANDARE!” urlò. La spinse lontano. Lei cadde all’indietro e urtò la testa contro il terreno duro. Si sentì un rumore di frattura e dal punto in cui la testa aveva battuto iniziò a fuoriuscire sangue. La donna restò immobile, con gli occhi che lo fissavano come quelli di un pesce morto. Lui ebbe un conato di vomito, ma avendo lo stomaco vuoto non uscì nulla se non un gusto amaro e acido.

      Quando gli spasmi digestivi si furono acquietati, si raddrizzò e continuò a camminare, nonostante si sentisse sulla nuca gli occhi morti della donna che lo fissavano. Se si fosse voltato, ne era certo, l’avrebbe trovata a guardarlo. Quella consapevolezza rendeva difficile non voltarsi.

      Ryan continuò a marciare.

       ***

      Lo aspettavano proprio oltre l’angolo. Bael e altri sette esploratori, in piedi in riga per bloccargli la strada. “Se non giochi seguendo le regole devi abbandonare la gara, Jeff” disse neutrale Bael.

      “Mi fate passare?”

      L’altro scosse la testa. “No. Non possiamo farti andare oltre.”

      “E allora adesso io cosa dovrei fare?”

      “Una di queste due cose: o torni indietro, oppure ti unisci a noi.”

      “E la mia missione qui?”

      “Smettila di giocare al soldatino di piombo, Jeff. Sai fare di meglio.”

      “Mi sa che voglio vedere cos’hai oltre le spalle.”

      “Noi siamo otto qui, Jeff, e tu sei solo.”

      “Sì ma io ho una pistola.”

      “Non funzionerà,” disse tranquillo Bael. “Non su di noi. La città non ti farebbe entrare.”

      E Ryan capì che aveva ragione. Qualsiasi forza detenesse il controllo di quel luogo non gli avrebbe permesso di distruggere nulla di importante. Ma doveva esser vicino a qualcosa, altrimenti il gruppo non avrebbero organizzato quella prova di forza per fermarlo.

      “Beh,” iniziò a dire lentamente. Poi di scatto si avvicinò agli uomini in riga. Il più vicino avanzò di un passo per bloccargli la strada; Ryan gli sferrò un rapido colpo all’inguine e l’uomo si piegò in due, lasciando libero un varco da cui correre via. E Ryan corse e continuò a correre lungo il passaggio tra gli edifici.

      “Inseguitelo!” gridò Bael… ma non ce n’era bisogno, perché gli altri uomini si erano già messi a rincorrerlo. Inizialmente, conoscendo la pianta della città, gli si mantennero quasi alle calcagna, ma la disperazione conferiva velocità ai piedi di Ryan. Smise temporaneamente di pensare e si lasciò guidare dall’istinto puro per smussare angoli che altrimenti gli avrebbero impietrito la mente. Si trovò a correre direttamente contro un muro vuoto e proprio un istante prima di colpirlo gli si aprì dinnanzi un varco. Passò attraverso edifici, su per gradinate, sotto delicati ponti arcuati sollevati a centinaia di metri d’altezza, e poi giù e fuori. Dentro, fuori, attorno, vicino… girovagava alla cieca ma il più velocemente possibile. I suoi inseguitori cedettero e rimasero indietro e alla fine non li vide più. Poi anche il rumore dei loro passi in sottofondo sparì. Ryan si fermò.

      Scese di nuovo il silenzio, quel silenzio con cui la città lo aveva inizialmente accolto. L’unico rumore era provocato dal suo respiro concitato, che cercava aria. Ricadde sulle ginocchia perché le sue gambe tremanti non erano più in grado di sostenerlo. Poi si adagiò su un fianco mentre nel petto gli entravano, brucianti, lunghe boccate d’aria.

      La mano andò di nuovo alla tasca posteriore per toccare il comunicatore. Il metallo freddo della scatola ebbe di nuovo il suo effetto calmante sulla sua psiche provata. Quella era la Terra. C’era una navetta orbitante sulla città, pronta ad aiutarlo. Non era solo in quella prova, soltanto in solitudine.

      “Ancora non mi hai stracciato, Bael,” ansimò piano.

      “Non ci ho ancora provato,” gli arrivò la voce di Bael. Ryan alzò lo sguardo, stupito. Sulla sua testa c’era un grosso schermo tridimensionale su cui campeggiava l’immagine di Bael. “Non c’è bisogno di correre, Jeff: la città mi tiene informato sulla tua posizione ogni minuto. Posso trovarti in qualsiasi momento io desideri. Ma se vuoi restare da solo, è una decisione tua. Noi abbiamo cercato di salvarti: ora ciò che succede è nella tua testa. Addio.” E lo schermo si spense.

      Ryan si guardò la mano: aveva stretto il comunicatore con tanta foga che le nocche si erano sbiancate. Allentò la presa e immediatamente gli iniziò a tremare la mano, senza controllo. Abbozzò una silenziosa sequela di imprecazioni, come una litania, contro tutti e contro tutto ciò che aveva a che fare con la spedizione, da Java-10 a Richard Bael, terminando con quella che pareva la sua principale antagonista: la città stessa.

      L’ombra gli concesse un preavviso di un secondo: poi il volatile lo attaccò.

       ***

      Era un’aquila, forse, oppure un falco —Ryan non riuscì proprio a focalizzarlo bene. Dall’alto scese in picchiata contro di lui una massa blu confusa, con gli artigli estesi verso il basso. Gli unghioni aguzzi e appuntiti gli puntavano direttamente al volto; il becco curvo aveva un’espressione maliziosa e malvagia. Gli occhi piccoli e penetranti erano fissi su di lui, immobili, in attesa di una qualsiasi reazione della loro preda.

      D’istinto Ryan alzò il braccio per proteggersi gli occhi. Un istante più tardi gli artigli segnavano di lunghe striature la pelle, mentre il becco cercava di strappargli la tenera carne del polso. Nell’attimo esatto in cui il volatile atterrò su Ryan questi, dapprima solo appoggiato al suolo, ricadde sulla schiena. Lo sbattere delle ali possenti dell’uccello lo colpì lateralmente sulla testa mentre l’animale si sollevava di nuovo per iniziare un altro bombardamento.

      Конец

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